Due anni fa avevano illuminato a giorno la scena doom/death con una rentrée clamorosa capace di dimostrare come sia ancora possibile riproporre le atmosfere novantiane degli albori del genere senza risultare stucchevoli o anacronistici, riprendendo un percorso interrotto dapprima per l’inattesa svolta stoner/grunge che li ha visti protagonisti sul finire dello scorso millennio e poi per le due decadi di silenzio che hanno preceduto il rilascio della supernova The Secret Teachings. In sede di recensione di quel lavoro, sottolineando come fosse frutto di incastri perfetti e alchimie magicamente declinate, ci eravamo posti il dilemma se ci trovassimo di fronte a un canto del cigno o all’inizio di una nuova era e, fortunatamente, la risposta dei Celestial Season è arrivata a (relativamente) stretto giro di posta e con i contenuti giusti per chi già nel lontano 1995 aveva intravisto nel loro Solar Lovers i tratti distintivi di una carriera potenzialmente fuori dall’ordinario.
Le buone notizie sullo stato di salute artistica della band, in realtà, arrivano da tutte le direzioni, a cominciare dal versante “quantitativo”, con l’annuncio di una trilogia che dovrebbe impegnare gli olandesi fino al 2023, passando per la conferma di una line up sulla cui qualità il predecessore parla abbondantemente da solo, per finire con la scelta di insistere sulle coordinate di The Secret Teachings, navigando anche stavolta con successo in acque antiche senza farsi mai travolgere dalle letali onde del “già sentito… e fuori tempo massimo”. L’impressionante carrellata di armi vincenti squadernata da questo Mysterium I si apre prevedibilmente con un equilibratissimo dosaggio di devozioni e reminiscenze mydyingbridiane, che, oltre a conferire ai brani un’andatura quasi voluttuosamente decadente, arricchisce le atmosfere delle classiche striature gothic distillate nell’antro magico di Stainthorpe e soci, dimostrando quale fecondo destino si può ancora ritagliare uno dei sottogeneri più bistrattati sotto il metal cielo qualora rinunci a farsi allettare dalle facili prospettive dell’easy listening da like e click. Parallelamente, anche il rapporto con la melodia, indubbio asse portante di tutte le tracce, si rivela estraneo a qualsivoglia tentazione di incrementare la potabilità dell’insieme a scapito della profondità, puntando dritto su giochi di chiaroscuri malinconici che dispensano eleganza e delicata poesia nel nome di una semplicità che, lungi dall’adombrare un’ispirazione di corto respiro, dimostra al contrario una grande maturità e una mano saldissima in sede di scrittura. A corollario e ideale coronamento dell’impianto complessivo, vanno celebrate le prove individuali degli ormai sette componenti in pianta stabile della band, a cominciare dal monumentale lavoro dalla coppia di sei corde Pim van Zanen/Olly Smit, alle prese con riff multicolori capaci di spaziare dall’essenzialità di stretta osservanza doom di marca Saint Vitus all’abbondanza di soluzioni e variazioni quando il tasso di potenza e muscolarità si alza. Al microfono, funziona anche stavolta alla perfezione il timbro del vocalist Stefan Ruiters, alle prese con un growl profondo e contemporaneamente sabbioso (davvero impeccabile la resa quasi da voce fuori campo di un ipotetico narratore/aedo omericamente in tour tra le corti doom) che aiuta a disegnare quei campi lunghi, arroventati e sfuocati che sono forse un inconsapevole lascito del periodo stoner dei Nostri, a cui peraltro Ruiters non aveva partecipato, essendo stato sostituito all’epoca da Cyril Crutz. Per bilanciare il potenziale spigoloso e parzialmente dissonante del cantato serve un contrappeso altrettanto significativo e il compito è magnificamente assolto dagli archi branditi dalle delicatissime mani di Jiska ter Bals (violino) ed Elianne Anemaat (violoncello), che ad ogni apparizione sulla scena scovano e disvelano anfratti intrisi di un lirismo struggente al limite della commozione, puntando anche in questo caso su una semplicità disarmante che tiene lontanissimo qualsiasi rischio di gonfiare artificialmente il flusso narrativo a caccia di emozioni posticce o di maniera. In questo mare magnum di note positive, l’unico appunto che si può muovere ai Celestial Season è forse quello di aver sfoderato meno coraggio rispetto a The Secret Teachings, dove avevano osato sfidare, sconfiggendole, le ferree leggi di gravità dei generi (ricordiamo qui per brevità solo la coppia di chiusura “A Veil of Silence”/”Red Water”, tra blues, hard rock classico e incursioni in territori occult/esoterici alla Jex Thoth), accontentandosi piuttosto (e mai come in questo caso, si fa per dire…) di dominare quella materia doom di cui maneggiano da fuoriclasse segreti e caleidoscopiche combinazioni. Sette tracce per quaranta minuti di ascolto complessivo, Mysterium I parte saldando subito il debito con le traiettorie My Dying Bride e Anathema degli esordi grazie all’opener “Black Water Mirrors” e, dopo aver illanguidito le atmosfere con la successiva “The Golden Light of Late Day”, prende definitivamente il largo con le spire sabbathiane arricchite da sottili venature orientaleggianti di “Sundown Transcends Us”, terra di conquista prima degli archi e poi di un ottimo assolo di chitarra. Non fallisce l’obiettivo neanche la perla notturna della compagnia, “This Glorious Summer”, che sprigiona dai solchi un senso di tranquillità solo apparente, ma il meglio deve ancora arrivare e si materializza nel terzetto di chiusura. Apre le danze la sorprendente “Endgame”, impreziosita da un elettrizzante tiro alla Dark Tranquillity su cui la coppia violino/violoncello ricama preziosi arabeschi, si prosegue con i refoli funeral che spirano su “All That Is Know” (ma anche qui gli archi intervengono spostando l’asse del brano verso il grigio della malinconia), e si chiude con “Mysterium”, pezzo anfibio che esalta in avvio l’attitudine melodica della band per poi sporcare progressivamente la trama regalando un finale in cupa e monolitica cristallizzazione del ritmo.
Sonorità antiche a cui abbeverarsi con sommo appagamento e senza timore di riportare anacronisticamente indietro le lancette del tempo, la conferma che la qualità, quando riesce a coinvolgere ed emozionare, trascende i vincoli del Tempo e conferisce un’aura di imprescindibilità alle band capaci di evocarla, Mysterium I è un album che non può mancare sui doom/death scaffali a tinte classiche di questo 2022. Con queste premesse, non resta che aspettare più che fiduciosi i due capitoli che completeranno l’annunciata trilogia, siamo pronti a scommettere che ci saranno altri punti esclamativi, nel prossimo futuro dei Celestial Season.
(Burning World Records, 2022)
1. Black Water Mirrors
2. The Golden Light of Late Day
3. Sundown Transcends Us
4. This Glorious Summer
5. Endgame
6. All That Is Known
7. Mysterium