Sei anni di distanza tra due album non sono pochi, specie per chi bazzica nell’underground. Natron, il precedente lavoro dei francesi Crown, risale al 2015 e aveva lasciato alcuni punti di sospensione circa l’attività della band. Qualcosa era già nell’aria, e a fugare ogni dubbio arrivano, anche in questo nuovo disco, delle collaborazioni non indifferenti e che stavolta hanno inciso in maniera quasi totale nel sound. Trattasi per l’esattezza di David Husser (al lavoro anche con i Depeche Mode) e Paul Kendall (che vanta tra le sue collaborazioni i Nine Inch Nails), entrambi attivi nelle fasi di registrazione e missaggio. Per chi fosse estraneo alle avventure sonore del trio (in origine erano due) basti sapere che gli inizi sono stati principalmente industrial metal con forti influenze post-metal. L’evoluzione ha poi portato al già citato Natron, un piccolo gioiello estremo/sperimentale dove confluivano molte anime in maniera eccezionalmente armonica.
Ci si scordi le imponenti architetture chitarristiche o i muri di suono distorti ed impenetrabili (per non parlare delle finiture melodiche). Le cose sono cambiate drasticamente, in questo The End Of All Things, asciugando molto la complessità che fino ad ora tingeva magicamente le canzoni. “Violence” irrompe in punta di piedi a suon di elettronica, chitarre liquido/acustiche e voci quasi eteree mettendo in ombra la componente industrial/doom metal come anche il post-metal. Fanno capolino inserti electro debitori dei Depeche Mode (“Illumination” con le sue visioni futuristiche), sfumature industriali alla Nine Inch Nails incrociate con i Katatonia degli ultimi anni ma soprattutto un’attitudine alla scrittura molto easy, diretta e forse fin troppo ruffiana nell’accaparrarsi i favori di chi non ama particolarmente le sonorità difficili. La raffinatezza e la classe del passato vengono messe in disparte ed emergono episodi molto danzerecci dove il groove risulta sì micidiale (“Shades”) e pure ballabile (“Gallow” con quelle chitarre post-punk e le voci robotiche) oppure misteriosi droidi sonici (“Firebearer”) ma pare che la band abbia compiuto considerevoli passi indietro centellinando i magnifici affreschi melodici a cui aveva abituato gli ascoltatori. Sebbene ci siano piccoli colpi di coda come la ballad “Fleuves”, fra schitarrate acustiche ed impetuose bordate elettroniche, o l’immensa presenza della tastierista/vocalist Karin Park, la parte forse più sperimentale degli Årabrot, nella suggestiva e magnetica “Utopia”, il passo indietro è palpabile in troppe occasioni. Non si sa se si tratti delle sole influenze dei produttori o della voglia di proseguire verso una direzione più quadrata, ma è oggettivo che la strada presa sia notevolmente eccentrica e stravagante e che potrebbe portare a risultati non così appaganti come ci si aspetterebbe. La mancanza di parti più pesanti e apocalittiche si fa sentire, erano quei riusciti miscugli di generi a funzionare in passato e ad oggi invece, malgrado il notevole lavoro di songwriting, i Crown sembrano adagiarsi sulla strana convinzione di essere comunque avanguardistici, pur non trasmettendo granché.
The End Of All Things è un disco che molto probabilmente dividerà le opinioni, come ad esempio successe per gli Opeth e il loro discutibile cambio di stile. Qualitativamente il lavoro è buono, magari anche qualcosa di più, però si sente che manca la scintilla. Un vero peccato.
(Pelagic Records, 2021)
1. Violence
2. Neverland
3. Shades
4. Illumination
5. Nails
6. Gallow
7. Extintion
8. Fleuves
9. Firebearer
10. Utopia