Bisognerebbe prendere spunto da album come questi. Non tanto per la musica in sé, ma per il senso di stima, supporto e collaborazione tra musicisti. Il disco in questione, Mariner, vede due pesi massimi unire le forze, ovvero i Cult of Luna, autori delle parti strumentali, e l’ex Made Out of Babies e Battle of Mice Julie Christmas, che si è occupata delle liriche. Entrambi si sono scambiati i file digitali senza mai incontrarsi, se non durante le fasi finali di missaggio e ciò che ne è uscito è un disco post-metal puro e semplice, senza il bisogno di dover aggiungere altre etichette inutili arricchito da una presenza vocale femminile che gode di una varietà non comune. Cinque brani per un’ora circa (nella versione in vinile è presente un brano in più) di musica intensa e carica di spunti.
Con “A Greater Call” inizia il viaggio (stando alle parole del mastermind dei Cult of Luna, il disco è una sorta di concept che descrive un viaggio nell’ignoto) in maniera atmosferica, con un mood soft segnato da chitarre liquide accompagnate da tastiere eteree. Poi, improvvisamente, tutto esplode, le asce diventano distorte e pesanti ed entra in scene il ringhio disperato di Johannes Persson, come fosse un invocazione per la salvezza, salvezza che arriva da un candido angelo dall’ugola dolce (almeno per ora). La Christmas al momento rimane ancora nell’ombra, come una sorta di tappeto sonoro, uno specchio che riflette le melodie apocalittiche del duo tastiere/chitarre. Si prosegue con “Chevron” e Mrs. Christmas comincia ad incattivirsi, iniettando del letale veleno nella sua voce. Il sound diventa più oscuro, scandito dal basso e dalla batteria, finché demoni perversi escono dal buio per azzannare. Le tastiere si fanno lugubri e visionarie mentre Julie si raffredda, come dopo un amplesso infernale assaporando il proprio orgasmo sonoro.
“The Wreck of S.S. Needle” prosegue l’intermezzo rilassato della canzone precedente, ma la pace dura poco e la pesantezza ricompare di prepotenza. Le asce ricominciano a roteare con classe, alternando sfuriate violente e pesanti ad arpeggi rilassanti ed inquietanti. Il pezzo è nuovamente dinamico: la melodia vocale portante è talmente sexy da insinuarsi violentemente nel cervello, grazie alla splendida interpretazione della cantante. È lei la vera protagonista del disco, una sorta di serial killer che ama sedurre l’ascoltatore come una sirena, incantandolo, per poi trucidarlo senza pietà. Ci si trova al cospetto di un altro brano lungo ed articolato ma la noia non irrompe mai, segno che i musicisti in questione sanno bene come intrattenere senza incorrere nel rischio di annoiare.
“Approaching Transition”, dopo tanta violenza, si pone il compito di rilassare l’ascoltatore. E si prende tutto il tempo per farlo, con i suoi tredici minuti, nei quali entra in scena anche qualche sonorità post-rock, sotto forma di delicati arpeggi di chitarra e tastiere oniriche che sorreggono la ricomparsa della voce maschile, qui però in una veste più malinconica e distaccata. Tutto è stato ridotto in macerie ed aleggia nell’aria qualche residuo di devastazione, residuo che esplode fragorosamente nei momenti finali della traccia. La consapevolezza di essere dispersi in una dimensione sconosciuta aumenta sempre di più ma è solo con l’epilogo, intitolato “Cygnus” che il climax raggiunge il suo massimo. Ispirato alla sequenza finale di 2001: Odissea Nello Spazio, quest’ultimo pezzo risuona come un’imponente sinfonia. Le voci femminili ricompaiono maligne, viziose e perverse, andando a forgiare un pezzo epico suddiviso tra chiaroscuri e nuove fragorose esplosioni strumentali, frammenti di luce cosmica. È un continuo crescendo nel quale le voci, per quanto potenti possano urlare il loro tormento e la loro agonia, scompaiono piano piano e la psichedelia ingoia ogni cosa. L’enfasi cresce e ci si rende conto di aver raggiunto un livello interiore più alto. È un cerchio che si chiude lasciando intravedere solo un nuovo inizio.
Bisogna dare atto a questo progetto di aver raggiunto l’obiettivo di emozionare, di lasciare il segno, a patto che si dedichi al disco il giusto tempo. Scrivere impressioni e dare un parere su di un’opera d’arte di tale calibro mette soggezione. Ve lo dice una persona che ha ascoltato per la prima volta il disco, nella sua quasi interezza, dal vivo ad Atene. Ascoltandolo a casa si possono cogliere mille altre sfumature, ogni volta nuove. Mariner è un disco da avere: questo non è un album post-metal, questo album è il post-metal.
(Indie Recordings, 2016)
1. A Greater Call
2. Chevron
3. The Wreck of S.S. Needle
4. Approaching Transition
5. Cygnus