Purtroppo ho scoperto il magico mondo di Dead Space Chamber Music quando già avevo mandato in redazione le mie scelte per il duemilaventuno, altrimenti il top album sarebbe stato sicuramente The Black Hours. Non si può stare dietro a tutto ciò che esce quotidianamente, questo è chiaro, ma devo comunque recitare un grosso mea culpa per essermeli lasciati sfuggire già al tempo del loro debutto omonimo del duemiladiciotto. Top album dicevo. Senza alcun dubbio. Non fosse altro che per la scelta di contestualizzare ai nostri giorni sonorità, strumenti e concetti legati al profondo medioevo. Ma non solo. C’è anche da sottolineare la grande prova della cantante Ellen Southern che riesce attraverso un lavoro egregio e ineguagliabile a lanciare un reale grido di dolore che abbraccia latino, inglese arcaico, gallese e elementi di glossolalia. Se per avanguardia intendiamo un qualcosa che sia espressivamente in contrasto con la tradizione e il gusto corrente, dal carattere decisamente sperimentale, allora sì, possiamo identificare The Black Hours come un album dal carattere avanguardistico, senza alcun dubbio. La loro proposta ha un gusto ancestrale, legato ad un oscuro cuore primordiale che non ha mai smesso di battere, e che anzi, nel silenzio di questi due anni di pandemia ha ritmicamente scandito le interminabili giornate cui siamo stati costretti.
Dal momento che il loro credo ruota intorno al processo di costruzione che si era soliti adottare nei (da me) sempre troppo poco rimpianti anni ’70, quando ci si chiudeva in sala di incisione per giorni, se non settimane e se ne usciva solo quando il risultato di quelle impro interminabili era conforme alle aspettative, possiamo pensare che la dimensione preferita per il quartetto di Bristol sia quella dal vivo, dove sia possibile cioè dare massima espressione alla loro vena creativa e improvvisativa. Meglio ancora se all’interno di collocazioni logistiche atipiche come chiese o monasteri, laddove cioè la struttura partecipa attivamente alla nascita e alla propagazione del suono, grazie ai riverberi naturali e al suono del silenzio delle pareti millenarie. Ciò che apprezzo particolarmente di questo approccio creativo è, oltre al fatto che spesso si entra in studio con un’idea e ciò che scaturisce all’uscita è diametralmente opposto a quanto si pensava in partenza, la totale apertura mentale dei musicisti che scelgono di porsi delle domande anziché andare a cercare delle risposte, spingendo il loro pensiero al di là dell’usuale. Da un punto di vista strettamente sonoro, collocare i Dead Space Chamber Music nel calderone del neofolk è un errore. Il tradizionale folk acustico che spesso ci spacciano come “neo” è un qualcosa che oggi lascia il tempo che trova. Non è certo il porsi come “reietti” sociali a elevare il valore di una proposta, quanto proprio l’approccio che il quartetto britannico ha scelto come centrale nella propria ricerca e sperimentazione. Vale a dire creare suoni “alieni e disturbanti” con strumenti classici e non con l’ausilio della tecnologia come siamo tutti soliti fare. Grande merito quindi a loro per averci mostrato che non per forza gli strumenti acustici a corda devono coincidere con sonorità medievali e romantiche e rinascimentali. Sta al musicista trarre il meglio da ciò che ha a disposizione, riuscendo a sublimare il tutto combinando influenze e idee, per dare vita a qualcosa di assolutamente personale che sfugge alla facile categorizzazione, e che sia coerentemente legato al proprio percorso musicale.
Possiamo guardare, spostandoci invece sul versante concettuale, a The Black Hours come a un concept legato alla liturgia delle ore, intesa come il susseguirsi degli atti di fede con cui i credenti, tramite i libri di preghiera, erano soliti affrontare le notti più oscure. Il tempo era ritmicamente scandito da invocazioni liturgiche di grande trasporto lette su piccoli libri simili a quelli che Dead Space Chamber Music hanno scelto di affiancare ad ogni formato realizzato del loro album. Un libretto curato direttamente da loro stessi, con disegni, miniature, collage 3D e fotografie. Un ulteriore segno della cura che hanno riposto nel confezionamento dell’album, e che spinge verso una maturità artistica a 360°. Se per molti la pandemia ha rappresentato un ostacolo, credo che per assurdo, per un ensemble come Dead Space Chamber Music, che fa dell’insieme e della coralità il suo punto di forza, il distacco forzato abbia avuto l’effetto paradossale di compattare la band rafforzandone le connessioni interne. La sensazione dominante durante i ripetuti ascolti è quella di avere a che fare infatti con delle improvvisazioni dall’atmosfera mutevole rese poi brani veri e propri in un secondo momento. Ed è qui che penso si possa pensare di collocare in ambito del tutto concettuale, un parallelo che unisce la loro creatività totalmente libera da condizionamenti, a quella delle improvvisazioni jazzistiche. Cercare di definire la loro proposta sonora è impresa decisamente difficoltosa. L’album sfugge a ogni classificazione, anche temporanea. Nel momento in cui pensi di essere riuscito a capirlo ti scappa come sabbia tra le mani, andando in una direzione tanto inattesa quanto sorprendente, per non dire opposta. Come un’esistenza disturbata che non trova pace. The Black Hours è tanto oscuro e rumoroso quanto lirico e musicale. Possiamo chiamarlo barocco, da camera, rituale, pagano, medievale. Come meglio crediamo. Ma ciò che non cambia è la qualità di un disco che spazza via tutto il resto. Un album che mi permette di guardare al domani sotto una luce ancor più cupa e che scava in profondità nei nostri pensieri più nascosti e dolorosi degli ultimi due anni, riportando in vita le esperienze più inquietanti che avevamo prontamente messo da parte, al sicuro, nel dimenticatoio.
(Autoproduzione, 2021)
1.Liement Me Deport
2.Bryd One Brere (Bird on a Briar)
3.Ion I
4.Mari Lwyd / Morfa’r Frenhines
5.Ion II
6.The Pit / Dissolved in Ashes
7.Douce Colombe Jolie