Il progetto nostrano (dalla Calabria) Deep Valley Blues nasce nel 2016 e nel giro di pochi anni dà vita a diversi album, fra cui questo nuovo e terzo disco chiamato III, uscito in ritardo a causa dei numerosi problemi causati dalla pandemia, che è composto da sonorità sludge/southern oltre che dalle classiche derive psichedeliche che si possono trovare un po’ ovunque in questo tipo di uscite. In realtà il quartetto da Catanzaro cerca di alzare il tiro preoccupandosi di non finire nel calderone degli epigoni ma di farsi una propria identità.
Il lavoro è prima di tutto un deciso manifesto di maturazione ben simboleggiato dalla copertina bianca con, in bella vista, la maschera scura che simboleggia la band, impressa però come fosse una macchia di Rorschach. Tale idea concettuale vuole essere una sorta di pittogramma sviluppato su più livelli temporali richiamando l’artwork del primo album (copertina nera) evolutosi in un “tramonto demoniaco” nel secondo, fino, per l’appunto al bianco attuale che rappresenta la libertà di interpretazione nell’ascoltare il disco attraverso la maschera quasi come fosse la macchia di Rorschach citata in precedenza.
I Deep Valley Blues sono un fulgido esempio di come si possa essere convincenti senza necessariamente avere delle idee particolarmente originali, anche se comunque alcuni guizzi geniali non mancano. “Epitaph – (Noir Ballad)” apre le ostilità con un muro marcio di chitarre blues stonerizzato ed un basso gonfio di distorsione ripetuti fino allo sfinimento, eppure la sensazione di noia non arriva e l’ascoltatore non finisce mai in quella perplessità tale da pensare di ascoltare dei colleghi di caratura più alta come ad esempio i Black Label Society nella zozza “Bronco Buster” infarcita di riff enormi, drumming da pugno in faccia e cori da qualche balera malfamata del Mississipi. Le citazioni ci sono ma non sono mai oltre i limiti (seppure ci siano degli scivoloni nell’heavy rock satirico e scopiazzato di “Malley O’Mucy”) e lasciano che sia sempre l’impatto a lasciare il segno. La sezione ritmica schiaccia sassi in “Smokey Mountain Woods”, che descrive l’attaccamento alla propria terra natia (un tributo allo “Smoky Mountains National Park” negli USA), la fobia desert rock di “Phobos”, lo stoner rock battagliero della dinamitarda “Pills of Darkness” (liricamente ispirato alla dipendenza da ansiolitici) ma anche la devastazione religiosa di “Sun of the Dead” (memore del suicidio di massa della Setta del Popolo nel 1978) sono tutti quadrati tasselli che mostrano una band decisa e conscia dei propri mezzi senza per forza che cada nel tranello delle cover involontarie. Anzi, ci sono pure delle piccole ma interessanti chicche dove traspare l’amore per il blues atmosferico in “Mum Darkwoods (dedicated to…)”, ma soprattutto il coraggio di scrivere un pezzo in italiano, la bellissima “Maschere”, brano che affronta il tema della schizofrenia inserendoci anche un bell’assolo di batteria, oramai cosa rara negli album in studio.
III è un disco “di pancia” e “de core” che non vuole essere perfetto ma solamente uno strumento per urlare ad un mondo sempre più sordo ed assente la sua presenza. Difettoso, fiero, passionale e sanguigno come pochi. La sua deformità e le sue anomalie sono i suoi punti di forza come un “antieroe”. Vogliategli bene!
(Swamp Records, 2021)
1. Epitaph (Noir ballad)
2. Bronco Buster
3. Malley O’ Mucy
4. Smokey mountain woods
5. Phobos
6. Talisman
7. Pills of darkness
8. Maschere
9. Sun of the dead
10. Epitaph (reprise)
11. Mum darkwoods (dedicated to…)