L’ottava fatica dei Deftones lascia sicuramente spiazzato chi si aspettava un album all’altezza di Koi No Yokan o almeno sulla sua falsariga. Diciamo da subito che Gore è un disco inferiore al precedente e che necessita di molti ascolti per rimanere impresso. Una volta superato lo smarrimento iniziale, Gore appare effettivamente un disco bellissimo, figlio del mestiere dei cinque californiani e parallelamente evoluto rispetto al precedente. Le virate post che tanto hanno rappresentato il punto di forza di Koi No Yokan sono molto più oniriche e riverberate, e l’aggressività tipica del combo emerge soprattutto nelle atmosfere più che dal suono delle distorsioni. Se vogliamo il risultato è ancora più asettico e meno monolitico, ma tagliente, affilato e chirurgico. Tale diversità rappresenta a conti fatti un punto di forza del disco, che sembra apparire più scialbo, o quantomeno ostico, alle orecchie degli aficionados del gruppo statunitense, facendo storcere il naso e non solo a chi si è fermato a Around the Fur oWhite Pony. Gore infatti è paradossalmente molto vicino a sonorità synth-pop anni 80 da questo punto di vista, ma molto più oscuro e oppressivo di tali lavori, come un film thriller che per incutere timore non ha bisogno di alcuno spargimento di sangue. Dal punto di vista compositivo i Nostri sembrano aver trovato la formula giusta, ma alcuni passaggi sembrano forzati e il lotto presenta dei punti morti, che, seppur limitati, minano la continuità complessiva di Gore.
L’iniziale “Prayers/Triangles”, primo singolo estratto dal disco, colpisce sicuramente per la melodia convincente di un Chino Moreno particolarmente ispirato e ben lontano da quanto udito nel nefasto Saturday Night Wrist. Si tratta del brano più “commerciale” del lotto, ma anche di quello forse più legato a certi stilemi compositivi di Koi No Yokan. Ci sentiamo di dire che se questo brano suonasse come nel classico stile Deftones, sarebbe probabilmente una B-side del precedente disco. Invece qui risulta un interessante apripista e un gustoso trait d’union tra il vecchio ed il nuovo. Insomma, un buon campanello d’allarme nella nostra scala di curiosità. La successiva “Acid Hologram” passa quasi in sordina e continua a rappresentare un graduale passaggio verso il nuovo corso, sconfinando ai limiti dello shoegaze. Qui si nota di più la trasformazione del suono di Stephen Carpenter, il quale risulta indubbiamente il componente più rinnovato tra i cinque californiani (anche se non sappiamo quanto sia contento di ciò, ma la nostra opinione è che sia un bene per il destino del gruppo). “Doomed User” invece è il classico brano spaccaossa à la Deftones, con un riff granitico che, seppur spogliato d’ogni monoliticità, riesce a incutere timore grazie al groove e alla buona resa delle atmosfere generali oniriche – gran lavoro di Frank Delgado – che ben si contrappongono alle disperate urla di un Chino Moreno in conclamato stato di grazia. Come l’opener “Prayers/Triangles” questa canzone avrebbe potuto suonare come tante altre canzoni dei Deftones, ma il tutto assume una forma nuova e più intrigante, tagliente nella sua freddezza, violenta e opprimente come un evento tragico e distante. “Geometric Headdress” invece è un chiaro esempio di impasse musicale, a tratti ballabile. La quarta traccia di Gore rappresenta una semplice composizione costantemente in tensione, suscitando una nevrosi psicologica che sfocia solo parzialmente nel ritornello più arioso. Si arriva così a una delle migliori canzoni di Gore, la psichedelica “Hearts/Wires” che evolve le virate post di “Rosemary” o “Tempest” e le proietta in questa nuova dimensione meno pompata ma molto più di classe. I delay la fanno da padrone, delineando un pezzo che sicuramente non sfigura di fianco una “Minerva” o una “Passenger”. “Pittura Infamante” invece forse rappresenta il pezzo meno riuscito di Gore. Il riffing sembra riciclato da Diamond Eyes, ma tende a rimanere nell’anonimato nonostante un intermezzo heavy godibile. “Xenon” invece ha il difetto di suonare un po’ come un corpo estraneo nell’economia dell’opera: questa e la precedente tutto sommato non sono brutte composizioni, ma spezzano il ritmo del disco e diminuiscono l’attenzione dell’ascoltatore, risultando scialbe e inferiori alle restanti canzoni. Forse sono le uniche canzoni di Gore che più risentono della mancanza di pesantezza nelle distorsioni e di quella verve maestosa tipica dei Deftones. Qui l’asetticità non viene bilanciata da un’adeguata freschezza delle composizioni, minando l’omogeneità del disco intero. L’asticella torna leggermente a alzarsi con la psichedelica e godibile “(L)Mirl”, che non sarà nulla di memorabile ma ci mostra un Sergio Vega in grande spolvero, capace di canalizzare l’attenzione dell’ascoltatore e di dimostrare ancora una volta di non essere un mero rimpiazzo del compianto Chi Cheng. Gran parte del suono rinnovato dei Deftones viene proprio dall’uso di un basso/chitarra baritona a 6 corde da parte del bassista californiano che ben si intreccia con le frequenze delle chitarre 8-corde di Carpenter. E quando si pensa che un finale senza picchi sia dietro l’angolo, arriva un trittico da urlo che rende Gore un disco consigliatissimo. In primis la titletrack, una delle canzoni più violente in tutta la discografia dei Deftones, che suona pressappoco come un omicidio cruento compiuto sul bagnasciuga mentre uno stormo di fenicotteri si libra in volo. Il groove impresso da Abe Cunningham contribuisce a innalzare la violenza del pezzo, mentre il riffing lento, asciutto e preciso di Carpenter infierisce sul cadavere, ben alternandosi alla ragguardevole teatrale sofferenza di Chino, che appare sempre più sul pezzo e attacca l’atmosfera del disco con inaudita ferocia. “Phantom Bride” invece risulta una delle ballad Deftonsiane più belle della loro discografia, degna evoluzione di quella “Entombed” che nel precedente Koi No Yokan ci aveva fatto sognare. La linea vocale è da brividi e viene ben intervallata dal cameo di Jerry Cantrell. Peccato forse per il finale, che risulta leggermente forzato e troppo separato dal resto della canzone. E giungiamo infine alla conclusiva “Rubicon”, la canzone più epica di Gore nel senso stretto del termine. Al pari di “Gore” e “Hearts/Wires”, il brano conclusivo risulta essere il pezzo più riuscito del disco e si palesa come il vero manifesto della sintonia e della maturità dei nuovi Deftones, un gruppo sempre più consapevole del proprio potenziale e della propria cultura musicale.
Insomma, complessivamente non possiamo essere delusi di Gore, in quanto sentiamo che, come per Diamond Eyes nei confronti di Koi No Yokan, questo possa essere un ulteriore passo intermedio verso una nuova pelle del rettile multiforme di Sacramento. In particolare, Gore è quello che avrebbe dovuto rappresentare Deftones rispetto a White Pony: un’evoluzione laterale che non cade nell’autocitazionismo e nella monotonia. Ma, rispetto al self-titled, qui l’esperimento risulta pienamente riuscito, al passo coi tempi e con punti deboli su cui è possibile soprassedere senza gridare allo scandalo. Non resta altro che levarsi ancora una volta il cappello di fronte a un gioiellino di una delle discografie più interessanti e con meno passi falsi del mondo della musica “dura”.
(Reprise, 2016)
01. Prayers/Triangles
02. Acid Hologram
03. Doomed User
04. Geometric Headdress
05. Hearts/Wires
06. Pittura Infamante
07. Xenon
08. (L)Mirl
09. Gore
10. Phantom Bride (feat. J.Cantrell)
11. Rubicon