Che le etichette di genere aiutino a districarsi nello sconfinato oceano musicale, specie in quello alternativo, è un dato di fatto; nondimeno, in alcuni casi sembra necessario mettere da parte le questioni di inventario e concentrarsi su ciò che sta oltre, ad un livello più altro. E’ il caso dei Do Make Say Think: sebbene siano inseriti un po’ a forza nell’enorme e vivacissimo calderone post-rock, sarebbe più opportuno parlare semplicemente di rock strumentale, e anche la stessa etichetta “rock” sembra riduttiva. Ma arriviamo al punto: Stubborn Persistent Illusions è il settimo album della carriera della band, che per realizzarlo ha speso otto anni, poco meno di quanto abbia impiegato complessivamente per il resto della discografia. Questo è un dato importante, perché quando una band prolifica prende una boccata d’aria le motivazioni possono essere molteplici, da quelle personali a quelle puramente artistiche, ma in ogni caso avranno un peso sulla maturità del lavoro svolto. In realtà l’ensemble di Toronto non ha mai lesinato ottime release, sebbene queste siano spesso passate in sordina, almeno nel Vecchio continente, oscurate dai grandi nomi del genere – qualunque esso sia. Dopo Stubborn Persistent Illusions, però, è bene che qualcuno si adoperi per inserire i Do Make Say Think in un ipotetico albo di artisti che ogni appassionato di certa musica dovrebbe conoscere.
Le battute iniziali riguardanti il genere d’appartenenza erano necessarie per mettere in chiaro che i canadesi sono ben lontani dall’avanguardia dei Godspeed You! Black Emperor tanto quanto dai melodrammi di Explosions In The Sky e soci, e anzi è del tutto insensato provare a cercare dei termini di paragone. La musica dei Nostri è diversa per concezione, per architettura formale, senz’altro più simile a quella di un’orchestra che a quella di una rock band. Non perché in essa siano presenti arditismi o sinfonismi, anzi, i brani che compongono l’album restano fieramente guitar-oriented. Ciò che li identifica è la maestria con cui vengono condotti i movimenti, gli scambi tra i vari strumenti e le loro timbriche, l’elaborazione motivica. Se ne ha già contezza con l’iniziale “War on Torpor” e il suo inaspettato banjo, ma la conferma arriva con la lunga “Horripilation”: il tema iniziale si interseca in lunghe progressioni in cui si ritagliano il proprio spazio prima il pianoforte, poi gli ottoni e infine le percussioni, per concludere con la ripresa del motivo. Ma ciò che definisce al meglio i Do Make Say Think e ne rappresenta la vera ragion d’essere è la costante ricerca di un suono delicato e modesto, atto più a coinvolgere nel suo insieme che a scioccare con improvvisi colpi di mano. In questo senso la musica dei canadesi si erge ad elogio delle piccole cose, che alla magniloquenza preferisce l’armonia pastorale (“Her Eyes on the Horizon”). Non a caso si possono intravedere parecchi influssi di quel folk bucolico tipicamente nordamericano – lo stesso evocato dalla bellissima copertina e dai suoi animali selvatici.
Considerando dunque quest’esigenza rurale come l’idea poetica dietro la musica dei Do Make Say Think, lo schema orchestrale come la struttura e la reiterazione di motivi continuamente sospesi, incompiuti (“As Far as the Eye Can See”) come strumento, abbiamo per sommi capi delineato l’identità di Stubborn Persistent Illusions. Chiaramente non è una disamina sufficiente per quest’album, ma del resto si tratta di musica che con le parole ha e deve avere poco a che fare. Possiamo limitarci a dire che siamo di fronte ad una vera perla di delicatezza, che riesce a emozionare sinceramente senza essere sofisticata né pretenziosa, segno di una band che fa, dice e soprattutto pensa molto e bene. Sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire un lavoro così denso di significato.
(Constellation Records, 2017)
01. War on Torpor
02. Horripilation
03. A Murder of Thoughts
04. Bound
05. And Boundless
06. As Far as the Eye Can See
07. Shlomo’s Son
08. Return, Return Again