“Faber est suae quisque fortunae”… Così gli antichi latini (o, per meglio dire, la storiografia senatoria espressione delle classi dirigenti romane) hanno sintetizzato in forma proverbiale il concetto che ciascuno sia artefice del proprio destino, con l’indubbio merito di aver liberato l’uomo dalle ataviche paure che dalla notte dei tempi ne rallentano la marcia verso la piena realizzazione, ma anche con il discutibile e pericoloso corollario che “virtù” e “sorte” siano un binomio inossidabile e che quindi dietro eventuali insuccessi si celino in realtà incapacità o quantomeno poco coraggio. Senza voler lanciare anacronistiche crociate contro un’idea che avrebbe celebrato il suo trionfo molti secoli più tardi, in epoca rinascimentale e ancor più nei fasti razionali dell’Illuminismo, ci limiteremo a osservare che, come quasi sempre, la saggezza condensata in formato-aforisma da cioccolatino mal si adatta a comprendere e spiegare tutte le sfaccettature di una Realtà che dimostra di avere la testa molto più dura di tutte le teorie che mettiamo in campo per illuderci di poterla controllare.
Immaginiamo per esempio di essere una band decisamente promettente, reduce da un EP di qualità e pronta a spiccare il volo con il primo cimento sulle lunghe distanze di un full-length la cui data di pubblicazione sia fissata per il 6 marzo 2020, esattamente negli stessi giorni scelti da una devastante pandemia per iniziare il suo tutt’altro che acclamato tour mondiale. Immaginiamo ora di convocare quella stessa band (i cui membri nel frattempo, per inciso, hanno dovuto affrontare malattie, ricoveri ospedalieri, licenziamenti, cancellazione di concerti e finanche l’allagamento della sala prove) e proviamo a fornirle il conforto delle auguste elucubrazioni antiche per spiegare il concatenarsi di siffatti eventi… ammesso che ci lascino finire di parlare prima di passare a più che giustificate vie di fatto. Stiamo parlando dei norvegesi Dwaal e davvero la loro storia recente dimostra come l’imponderabile possa ancora giocare un ruolo fondamentale nelle sorti di un progetto, indipendentemente dalle migliori intenzioni e dall’impegno di chi pure si è messo in gioco con frecce notevoli al proprio arco. Dopo l’esordio nel 2017 con l’EP Darben, scivolato via stranamente e immeritatamente un po’ in sordina nonostante avesse tutti i numeri per finire sui radar dei devoti delle sonorità doom/post- più oscure e allucinate (provare per credere l’ottovolante emozionale dell’opener “Not A Soul”), il sestetto di Oslo ha giocato il classico carico da novanta con Gospel of the Vile, album monumentale con tutte le carte in regola per acuire il senso di disagio e straniamento come colonna sonora ideale delle forzate clausure pandemiche del 2020 di cui è stato involontario compagno. Accumulato un evidente e significativo credito con la sorte, i Nostri tornano ora sulle scene con questo Never Enough e dimostrano che le già convincenti prove del passato erano tutto fuorché un fuoco di paglia occasionale. Anche stavolta la traiettoria artistica dei Dwaal si colloca su piani di volo caratterizzati da pesantezze soffocanti solo scalfite da aperture atmosferiche che in definitiva acuiscono il senso di inquietudine complessivo, mentre tutto intorno si innalzano monoliti sinistri che tolgono il fiato e rendono spettrali i riflessi della poca luce a cui è consentito l’accesso. La formula, vincente, è quella di un ipotetico incontro tra la materia doom, il fango sludge e le astrazioni post-, il tutto miscelato alla perfezione per rendere impercettibili le eventuali linee di faglia che derivano dall’incontro di generi indubbiamente confinanti ma sempre ad alto rischio di standardizzazione e banalizzazione, se maneggiati superficialmente. Ecco allora da un lato le trame tormentate di marca Amenra e i campi cinematograficamente lunghi di scuola Cult of Luna, ma ecco anche quelle velleità in qualche modo sperimentali che sono il tratto distintivo della declinazione eterodossa del doom in casa Yob, con l’avvertenza che, comunque, rispetto al combo capitanato da Mike Scheidt, i norvegesi mantengono un rapporto sempre saldo con la fruibilità dell’insieme. Oltre alla resa complessiva, a strappare applausi è anche la prova dei sei componenti della line-up, con la sezione ritmica Stian Hammer/Anders Johnsen impeccabilmente impegnata a dettare tempi e cadenze e la coppia di sei corde Eigil Dragvik/Rikke Karlsen capace indifferentemente di iniettare potenza nel corpo dei brani o di rendere improvvisamente eteree le atmosfere, mentre un comparto vocale presidiatissimo dallo scream/growl acuminato e lisergico di Bjørnar Kristiansen arricchisce e completa l’arsenale di dissonanze a disposizione della band. Last but (assolutamente) not least, completiamo l’appello con una nota di merito particolare per lady Siri Vestby alle tastiere, mai invasive o anche solo stucchevolmente debordanti, ma al contrario sempre essenziali nell’aggiungere riflessi malinconici, azzardare rapidi excursus dal sapore vagamente psych o alleggerire temporaneamente il carico emotivo dispensando frammenti lirici nelle trame. Cinque episodi dalla durata più che sostenuta per un totale complessivo di poco inferiore ai quarantacinque minuti di ascolto, Never Enough spara subito una cartuccia importante con l’opener “All Masters, All Servants”, che gioca magnificamente con assalti all’arma bianca, improvvise sospensioni del ritmo e un finale che rimanda a una delle grandi sorprese di questo 2023, il subterranean doom metal firmato Cavern Deep, ma la rotta muta subito con la successiva “Pseudanthium Aionios”, che si avvia e chiude su tornanti segnati dalla classica densità sludge ma che racchiude nel corpo centrale un inserto melodico dagli accattivanti riflessi space. Detto di una “Leichenhalle” a cui spetta il compito di illustrare con dovizia di particolari e pari godimento il livello di sinfonia quasi orchestrale di cui è capace il sestetto, regalando i migliori momenti di trasporto in dimensioni parallele dell’intero platter, tocca a “Repentance of a Bastard” riportare al centro della scena masse e sostanze dal peso specifico impegnativo, ma anche qui è bene non dare nulla per scontato, perché, dopo un quasi stop and go centrale, il brano riparte con un altro impeccabile inserto melodico, sia pure insidiato dal cantato di un Kristiansen mai così spigoloso. La scelta per chiudere il viaggio sembra cadere inizialmente sulle spire doom/death che animano l’avvio di “You Will Never Be Enough”, ma ancora una volta c’è spazio per un’incastonatura inattesa, con un passaggio quasi corale con microfono, chitarre e tastiere a dissipare per un attimo le nubi in una sorta di rito propiziatorio, prima che l’oscurità torni a far calare il sipario.
Un ritorno trionfale, un annuncio a tutto volume che non di solo black vive la scena metal norvegese, la conferma che questi ragazzi hanno la stoffa dei fuoriclasse, Never Enough è un album che si arrampica prepotentemente sui gradini più alti delle scale qualitative di questo 2023, anche oltre i recinti doom, sludge e post-. Posto più che garantito nei consuntivi di fine anno, per i Dwaal.
(Dark Essence Records, 2023)
1. All Masters, All Servants
2. Pseudanthium Aionios
3. Leichehalle
4. Repentance of a Bastard
5. You Will Never Be Enough