Figlia di Echidna e Tifone, sorella di Cerbero e della Chimera, con un corpo da serpente su cui si innestavano nove teste capaci di esalare un respiro mefitico e mortale, l’Idra della mitologia greca è la vittima della seconda delle celebri fatiche di Eracle, sconfitta dall’eroe con l’aiuto del nipote Iolao e per questo motivo non “conteggiabile” tra le dieci prove imposte da Euristeo come percorso di riscatto e riabilitazione per aver ucciso in un attacco d’ira la moglie e i figli. Tra decapitazioni in serie (ogni testa doveva essere recisa, prima di schiacciare quella centrale per provocarne la morte definitiva) e truculente cauterizzazioni dei moncherini (altrimenti su ciascuno ne sarebbero ricresciute due), lo scontro tra il semidio e la creatura degli Inferi è la classica dimostrazione di come la passione per lo splatter sia tutt’altro che una prerogativa contemporanea e, nei racconti degli aedi a margine dei banchetti di corte, la morte dell’Idra avrà indubbiamente evocato immagini potenti e di facile presa orrorifica sugli ascoltatori.
A più di qualche secolo e a diversi paralleli di distanza, un’altra Idra morente prova oggi a prendersi la scena, stavolta musicale, pronta ad allungare i suoi tentacoli per trascinarci in dimensioni oscure e contaminate. I Dying Hydra vengono da Copenaghen e, fino ad oggi, potevano vantare un più che discreto, omonimo EP di esordio, rilasciato tre anni fa e caratterizzato da una convincente miscela di doom e sludge di vaga ascendenza Crowbar, con consistenti contributi atmospheric che lasciavano intravedere venature post metal ben più che in filigrana. E l’ammaraggio sul mare magno post si concretizza davvero con questo Of Lowly Origin, prima prova sulle lunghe distanze di un full length e consistente passo avanti qualitativo rispetto alle pur non trascurabili premesse del debutto. Non ingannino, dunque, i tratti grafici di una cover che sembra rimandare a suggestioni folk/occult, perché il contenuto, al contrario, sprigiona dosi massicce di potenza ed energia che si aggirano tra strutture maestosamente definite alternate a splendidi passaggi dove il ritmo rallenta e si aprono squarci lirici che in qualche caso si spingono fino a una ricercata e trasognata delicatezza. Il vero asso nella manica della band, però, è la capacità di avventurarsi su quei tornanti sciamanici che hanno fatto la fortuna di una band come i Minsk, dato discretamente sorprendente se consideriamo la line up dei danesi, che non prevede un basso sovraccaricando così, senza peraltro alcun riflesso negativo, il lavoro della coppia di sei corde Lars Pontoppidan/Patrick Fragtrup. Lo stesso duo condivide anche il cimento al microfono, sfoderando uno scream spigoloso quanto basta secondo gli stilemi classici di un genere comunque debitore della tradizione core, ma capace anche di accompagnare il flusso narrativo degli strumenti senza puntare necessariamente sull’effetto dissonanza. Vista la più che autorevole pietra di paragone, un compito non meno gravoso pesa sulle spalle del mulinatore di bacchette e pedali Tejs Kyhl, ma anche in questo caso la prova è superata di slancio, per una resa che non si allontana troppo dai vertici assoluti raggiunti da sua maestà Tony Wyioming sullo sgabello del combo di Peoria. Tra atmosfere dense ma senza picchi di claustrofobia, un senso di marcia cadenzato che conferisce all’insieme un retrogusto vagamente solenne e un’impeccabile gestione sopraffina degli inserti melodici, la tracklist dispensa a piene mani episodi marchiati a fuoco dal tratto dell’impeccabilità, a cominciare dall’opener “Earliest Root”, che accumula energia oscura con un grande avvio, sfrutta alla perfezione uno stop and go a metà percorso e scarica la tensione in un finale dalle movenze prima marziali, poi austere e infine cosmic. Al confronto, è senz’altro di più immediata presa e fruizione la successiva “Unlit”, veloce cavalcata dove comincia ad affacciarsi quell’afflato tribalistico di stampo neurosisiano che ritroveremo come filo conduttore dell’intero platter rappresentandone uno dei punti di forza. La riprova arriva immediatamente con l’ottima “Rootborn” (come non sentire, nel lungo corpo centrale e in chiusura, echi di una “A Chronology for Survival”, direttamente da quel calderone di generi e ispirazioni che risponde al nome di Souls at Zero, in casa Kelly/Von Till e soci?) e, su un livello qualitativo appena inferiore, con “Ashed Eyes”, dove la potenza delle pelli si abbatte su un lago di fango provocandone una sinistra tracimazione, con annesse reminiscenze tooliane sullo sfondo. Nel mezzo, il probabilissimo best of dell’intera compagnia, “Species Adrift”, in cui su una struttura fondamentalmente doom germogliano magicamente ricami delle sei corde dallo spiccato gusto orientaleggiante, che alterano seriamente la percezione del tempo catapultandoci in dimensioni parallele. Ed è ancora una sorta di straniamento il cuore pulsante della conclusiva (almeno nella versione su vinile) “Undergrowth”, che apparecchia una cerimonia ad alto tasso di esoterismo con la batteria a scandire ossessivamente il ritmo disegnando spire ipnotiche per favorire quel distacco da sé che è la base di qualsiasi percorso iniziatico. E sulle ultime note, mentre cala il sipario, ci sembra di distinguerla nitidamente, dietro le quinte, l’ombra psych dei Samsara Blues Experiment… ed è tutt’altro che una cattiva notizia.
Un quasi debutto che si scrolla subito di dosso i rischi della derivatività nonostante la scelta di avventurarsi in acque ormai più che affollate, un ascolto emozionante e coinvolgente che esalta la capacità della band di coniugare freschezza dell’ispirazione e impeccabile gestione dei sacri crismi dei generi solcati, Of Lowly Origin è un album che si colloca immediatamente a ridosso della fascia di eccellenza, candidandosi a grande sorpresa dell’anno in ambito doom/post. Da ascoltare e seguire con la massima attenzione, sono bravi davvero e promettono ancora di più, questi Dying Hydra.
(Narshardaa Records,2021)
1. Earliest Root
2. Unlit
3. Rootborn
4. Species Adrift
5. Ashed Eyes
6. Undergrowth