Ci siamo recentemente occupati in sede di recensione dell’ultimo lavoro degli irlandesi Partholón, dello stato di salute eufemisticamente non troppo rassicurante del movimento sludge e già in quella circostanza avevamo sottolineato come una delle possibili vie d’uscita per superare il momento di difficoltà possa essere il ricorso a contaminazioni e ibridi con generi più o meno attigui, nel tentativo di riavvicinare e riabituare le metal-papille ai sapori fangosi e alle atmosfere malsane che hanno fatto la fortuna di moniker-monumento del calibro di Crowbar, Down e Acid Bath. Se, nel caso dei Partholón, la strada seguita è stata quella di condensare negli stessi solchi sia l’ortodossia sludge sia la sua “eresia” atmosferica assurta a genere autonomo sotto la definizione post-metal, sul continente una band ormai più che discretamente stagionata insiste con caparbietà e coerenza su rotte artistiche in cui i fanghi industriali sgorgano in riarse lande stoner e scorrono con passo oscuro e cadenzato secondo i crismi della lezione doom.
Stiamo parlando dei tedeschi Earth Ship, che con questo Soar approdano al sesto capitolo di una carriera contraddistinta da una buona prolificità tra il 2011 e il 2018 e che in seguito ha fatto registrare solo apparentemente una battuta d’arresto, visto che in questi sei anni i due membri-cardine della band, Jan e Sabine Oberg, si sono cimentati in diversi progetti paralleli, tutti peraltro contraddistinti da traiettorie sonore abbastanza affini, sia pure con dosaggi di ingredienti lievemente differenti. Se, infatti, il poker di pubblicazioni sotto le insegne Grin ha valorizzato le spinte doom e stoner, con il moniker Slowshine ecco avanzare anche significative suggestioni doomgaze, il tutto sempre sotto l’egida di un approccio psichedelicamente orientato, a dispensare un accattivante retrogusto vintage. Così, in una sorta di reductio ad unum delle diverse esperienze maturate, i berlinesi riescono nell’impresa tutt’altro che banale e scontata di riunire sotto lo stesso cielo materia in stato di alterazione, vampe di calore e riflessi psych di scuola settantiana. La chiave di volta per il buon esito del tentativo è innanzitutto la scelta di puntare su un’essenzialità priva di fronzoli e orpelli, che connette immediatamente il terzetto (nella circostanza i due Oberg si fanno accompagnare alla batteria da André Klein, già alle pelli degli Slowshine) a quella che viene generalmente identificata come la seconda ondata doom e che vede Saint Vitus e Pentagram tra i suoi principali alfieri. Ecco allora, da un lato, il gran merito di una sezione ritmica impegnata a edificare strutture massicce ma non impermeabili al lento e costante ribollire di miasmi mefitici che ne insidiano l’imponenza e dall’altro il ricorso sempre ragionato e mai ostentato a sua maestà il riff, che su queste frequenze è lo snodo decisivo per separare derivatività e ispirazione. Un capitolo a parte merita la prova di Jan Oberg, che si conferma polistrumentista d’eccezione (senza contare il suo sterminato bagaglio da mastermind dietro le quinte, nei panni di produttore e ingegnere del suono) ma che segnaliamo qui soprattutto per una resa al microfono più che convincente grazie a uno scream sabbioso quasi soffocato che strappa di rado le trame, puntando piuttosto a inserirsi nel flusso sonoro come strumento aggiuntivo. Ed è proprio il comparto vocale che, in ultima analisi, fornisce il contributo decisivo per incrementare il tasso sludge dell’insieme, con le paludi della Louisiana sullo sfondo a suggerire possibili approdi di marca crowbariana. Otto tracce per poco più di quaranta minuti di ascolto complessivo, Soar parte subito senza fare prigionieri con la coppia d’assalto “Shallow”/”Soar”, autentiche maccalube da cui il fango sludge zampilla in forma semiliquida per acquisire progressivamente forma e sinistra solennità esalando vapori insalubri. I ritmi restano serrati e incalzanti anche nella prima metà di “Ghost Town”, ma stavolta il brano si apre improvvisamente in una visione dove stoner e psichedelia prendono la barra del comando sporgendosi su paesaggi cosmic, che restano in campo per diventare il tratto distintivo della successiva, strumentale, “Radiant”. Sospesa tra spire ipnotiche, qualche strappo abrasivo e discrete velleità vagamente orientaleggianti, tocca a “Ethereal Limbo” vestire i panni del momento più strutturalmente articolato del lotto, mentre giri motore incrementati e acidità sono la cifra stilistica di “Acrid Haze”, punto di maggior contatto con quell’hardcore punk che è un altro degli imprescindibili affluenti del fiume sludge. Detto di una “Bereft” che, pur trovando una vena tutt’altro che disprezzabile anche in termini di (relativa) fruibilità, fatica a piazzare uno scatto davvero travolgente, il finale è affidato all’eccellente “Daze And Delight”, semi-ballad dall’andatura blues su cui il cantato di Oberg, per una volta in clean cantilenato, disegna assolate traiettorie stoner che osano spingersi alle soglie del grunge, dimostrando ancora una volta la straordinaria capacità della band di coniugare semplicità e coraggio.
Sonorità antiche e di nobile lignaggio declinate con mano ferma e con la consapevolezza di attraversare un mare solcato da legioni di vascelli che hanno già scritto pagine memorabili, Soar è un album che non pretende di riscrivere la storia dei generi musicali su cui si affaccia né di fissarne le colonne d’Ercole su nuove, inesplorate rocche, offrendo però in cambio un buon carico di passione e la capacità di richiamare i modelli con il dovuto senso dell’equilibrio e della distanza. Per i cercatori compulsivi dell’originalità a tutti i costi potrebbe essere un boccone dalla dubbia digeribilità, per noi invece gli Earth Ship sono un ascolto più che consigliato, nonché uno dei possibili rimedi da esibire al capezzale dell’affannato sludge del Terzo Millennio.
(The Lasting Dose Records, 2024)
1. Shallow
2. Soar
3. Ghost Town
4. Radiant
5. Ethereal Limbo
6. Acrid Haze
7. Bereft
8. Daze And Deligths