“Ma come, non sono passati neanche sei mesi e già si replica?!?”. E’ stato più o meno questo il pensiero del recensore all’arrivo in redazione del press kit a firma Empress, convinto di trovare nei solchi un prematuro seguito di quel Premonition che nel cuore dell’estate si era segnalato tra le uscite doom/sludge 2020 in area nordamericana, ma evidentemente ci sono anni in cui la buona sorte sceglie di premiare un moniker trasformandolo in garanzia di qualità per tutte le band che l’hanno scelto, indipendentemente dal genere e dalla provenienza geografica degli interpreti.
Ecco allora che l’omonima risposta in arrivo dall’emisfero sud è altrettanto valida e, anzi, a conti fatti, addirittura superiore alla proposta confezionata a Vancouver, al netto delle diverse acque solcate dai due gruppi. Gli Empress di questo Wait ‘til Night, infatti, regalano un eccellente lavoro dai riflessi multicolori, in cui le componenti doom e post ricoprono un ruolo indubbiamente fondamentale, arricchite però da contributi shoegaze, alternative e finanche indie che risultano non meno decisivi, per entrare in sintonia con lo spirito del platter. Questo quintetto australiano, oltretutto, sembra aver pescato tutt’altro che un jolly inatteso, viste le premesse squadernate nel già ottimo debutto omonimo del 2017 (a cui rinviamo assolutamente, cercando di porre rimedio al colpevole ritardo della scoperta), stranamente poco intercettato dai radar degli amanti degli impianti melodici di base tormentati da improvvise abrasioni core. Già in quella prova, infatti, si era messa in gran luce la vocalist Chloe Cox, incantevolmente sospesa tra altopiani eterei avvolti da spire esoterico/liturgiche (Sera Timms e Jex Thoth compaiono immediatamente, sullo sfondo) e strappi dissonanti sempre pronti a tormentare le atmosfere con un consistente carico di straniamento e allucinazioni, sulla rotta di Chelsea Wolfe quando non addirittura di una Zofia Wielebna Fraś, in casa Obscure Sphinx. Rispetto all’esordio, va detto che stavolta i graffi assestati da lady Cox sono meno profondi e, di conseguenza, gli spigoli core risulteranno meno pronunciati e appuntiti, ma, all’altro capo dello spettro, la prova vocale guadagna moltissimo sul versante dell’”interpretazione” pura, avvicinando in diversi passaggi l’eleganza contemporaneamente potente e delicata che i doomster più classicamente ortodossi venerano in Jennie-Ann Smith, alla tolda del vascello Avatarium. Se è vero però che il microfono resta per tutto il viaggio il centro di gravità che determina andatura e tensione, non vanno assolutamente trascurati i contributi degli altri componenti della band, a cominciare dalla sezione ritmica Shaun Allen/Ben Smith, sempre più che puntuale quando è chiamata in causa rispettivamente alle quattro corde e alle pelli per appesantire o cadenzare il passo, per passare alla sorprendente naturalezza della coppia di chitarre Julian Currie/Jackson Tuchscherer nell’alternare i registri, con pari, riuscitissimo esito sia nei momenti muscolari, sia in quelli dove sono chiamate a sottolineare contemplazioni o veri e propri abbandoni. Di sicuro, anche se complessivamente la componente post può legittimamente aspirare a un ruolo di “rumore di fondo” riconoscibile anche a minuti di distanza da un ipotetico big bang sprigionato dalle prime note dell’opener “Golden Orb” (dove si nota con più immediatezza il cordone ombelicale che lega ancora i Nostri al debut), Wait ‘til Night è un album in grado di provocare mal di testa permanenti ai paladini delle rigide classificazioni di genere, a cominciare dal tiro indie/grunge della successiva titletrack, che ricorre a nobili ascendenze (Afghan Whigs?) per spiazzare chi si aspetti una navigazione coi rassicuranti tratti della prevedibilità. Così, dopo una “Scorpio Moon” che solletica i palati doom devoti alla lezione Saint Vitus declinata al femminile con l’eco della divina sacerdotessa Jessica Thoth nei panni di maestra di riti iniziatici, c’è subito pronta la sospensione del ritmo di “Back to the Ground”, sorta di ninna nanna solo apparentemente tranquillizzante, giocata com’è tra un cantato quasi etereo e una base electro/space che promette contatti con dimensioni non del tutto solari. Si riprende solo parzialmente velocità con “Void Shape Void”, dove Chloe Cox indossa ripetutamente i panni della storyteller cantautorale prima di farci tuffare nel cuore post del brano e ancora di più con “Curse”, in cui emergono distintamente le potenzialità “teatrali” della band, che lambisce qui il territorio avantgarde senza alcuna artificiosa forzatura, prima di affidarsi a un finale trascinante in chiave tutt’altro che banalmente melodica. Nel caso non dovessero bastare le sorprese finora accumulate, ecco servita la traccia più enigmatica del lotto, “Where no Light Can Remain”, ottimo lavoro “in sottrazione” che affianca a un delicato retrogusto quasi celtico un crescendo di increspature che riempiono l’atmosfera di vapori malinconici, mentre per il finale gli australiani puntano sul post rock dalle consistenti potenzialità radiofoniche di “I Let You In”, dimostrando che non necessariamente potabilità e profondità scatenano contrasti insanabili, quando si incontrano sotto la guida di mani capaci.
Raffinate dissolvenze che svelano un afflato poetico dove però risuona ancora l’eco di antiche progeniture post-punk, una riuscitissima convergenza di generi che regala a ogni traccia luci e riflessi in caleidoscopica combinazione, Wait ‘til Night è un album che coinvolge ed emoziona per tutta la durata del viaggio, fermandosi a pochissimi passi dalla soglia dell’imperdibilità. Quello degli Empress è sicuramente un nome da associare alla voce “applausi”, nella compilazione dei consuntivi di questo 2020.
(Brilliant Emperor Records, 2020)
1. Golden Orb
2. Wait ‘til Night
3. Scorpio Moon
4. Back To the Ground
5. Void Share Void
6. Curse
7. Where No Light Can Remain
8. I Let You In