Inghilterra, primi anni dell’ultima decade del secondo Millennio, gruppi sparsi di coraggiosi pionieri hanno appena iniziato a dissodare terre ancora vergini sul pianeta metal, cercando di intrecciare la pesantezza classica del doom con le distorsioni e i muri sonori d’ordinanza del death, lasciando scorrere più o meno sottotraccia una vena melodica. Nasceva così il doom/death e, immediatamente, la sacra triade Paradise Lost/Anathema/My Dying Bride si incaricava di tenere alto il vessillo del nuovo sottogenere sul suolo britannico, mentre, quasi contemporaneamente, un quanto mai opportuno soffio di vento ne stava depositando le spore anche sul suolo scandinavo, pronto a far germogliare l’epopea Katatonia. Come spesso accade, la Storia tende a tramandare le gesta degli eroi più in vista (e, del resto, le biografie dei “Peaceville Three” dimostrano che ci sono sempre stati validissimi motivi, per tenere il faro acceso su di loro), ma il trascorrere inesorabile del tempo rischia di farci dimenticare chi è sceso in campo magari per una sola battaglia ma con non meno coraggio e qualità di chi guidava le schiere.
È sicuramente questo il caso degli Enchantment, quintetto di Blackpool che nel 1994 è stato capace di illuminare la scena con una supernova di prima grandezza del calibro di Dance The Marble Naked, debutto a tal punto straordinario da convincere una major come la Century Media Records a metterli sotto contratto addirittura per sei album. Inaspettatamente però, complice un risultato non troppo lusinghiero in termine di vendite e successo, i Nostri abbandonavano il progetto dopo solo un anno e da allora sia del moniker che dei suoi componenti si sono perse completamente le tracce, fino al sorprendente rilascio di un singolo che, nel 2021, ha annunciato la possibile ripartenza, con una line-up quasi immutata con la sola eccezione di Aiden Baldwin subentrato alle pelli a Chris Sanders. Il risultato della reunion è questo Cold Soul Embrace, che, come dichiarato dalla stessa band, è in realtà composto in larghissima parte da materiale già in lavorazione ai tempi dello scioglimento e qui va subito lodata in premessa la capacità del quintetto di non aver varato né un vascello con una rotta anacronisticamente rivolta al passato, né un raccogliticcio campionario di cliché maturati con il progressivo affermarsi sulla scena del genere. Fin dal primo ascolto, infatti, è più che apprezzabile lo sforzo di rielaborare con una sorta di labor limae, più che di riscrittura integrale, un lavoro rimasto così a lungo nei cassetti, tenendo in opportuna considerazione le modifiche inevitabilmente occorse al gusto death/doom a trent’anni di distanza dai primi cimenti ma senza dimenticare le solidissime basi del passato. Volendo trovare una pietra di paragone, possiamo forse volgere lo sguardo in terra d’Olanda, dove, pur con una traiettoria non del tutto sovrapponibile e con scelte artistiche parzialmente differenti, i Celestial Season hanno saputo rompere un silenzio prolungato e sfidare vittoriosamente il tempo ripresentandosi con lavori qualitativamente da applausi. Sul fronte stilistico, gli Enchantment confermano una salda collocazione nella scuola anglosassone, con un attento bilanciamento tra strappi death e rallentamenti doom ma, soprattutto, con una cura particolare per le atmosfere, segnate da quei tratti voluttuosamente decadenti che hanno fatto la fortuna del modello mydyingbridiano e marcando così una discreta distanza dall’ala scandinava del movimento, storicamente più orientata alla drammatizzazione delle trame anche quando pesca a piene mani nel registro del “malinconico”. Con simili premesse, non stupisce che la componente melodica giochi un ruolo di primo piano agevolando la fruibilità dell’insieme, ma in nessun caso si assiste a una deriva ruffiana a caccia magari anche di una resa radiofonicamente accattivante; certo, ritornelli e riff rimangono facilmente impressi nella memoria e chi ama la dicotomia vette/abissi di marca swallowiana rischia di rimanere parzialmente spiazzato, ma è impossibile non apprezzare l’amalgama tra muscoli, spigoli e anfratti poeticamente declinati che si sprigiona dai solchi. Ecco allora la sezione ritmica Tierney/Baldwin potente senza mai tracimare, il gioco di sei corde della coppia Gibson/Blackmore sempre impeccabile tra strappi abrasivi e improvvise aperture armoniche e, non meno significativa, una più che convincente prova al microfono del vocalist Paul Jones, capace di aggirarsi con pari maestria tra growl, scream e clean in modalità strumento aggiunto. Sette tracce più un veloce intermezzo per un viaggio complessivo di poco superiore ai quaranta minuti, Cold Soul Embrace spara subito una cartuccia importante con l’opener “As Greed As The Eye Beholds” (il singolo rilasciato in anteprima un anno fa), impreziosita da un’elegante linea gothic su cui si innestano cavalcate telluriche che rendono immediatamente percepibile la doppia anima del platter. A questo punto, praticamente ogni stazione riserva più che validi motivi per una sosta, dagli accenni sludge quasi crowbariani di “A Swanlike Duet” alla multicolore “Painting Amongst The Feathers”, con i suoi riff ricercati (e nota di merito particolare per Jones che si cimenta con successo in riusciti inserti narrativi), passando per la vena orchestrale con effetti teatralizzanti di “Of Glorious Vistas Forgot”. Anche dopo il giro di boa imposto dalla breve “The Wake Of The Hollering Tide”, la qualità rimane il tratto distintivo delle tracce, a cominciare dalle spire sinuosamente accattivanti di una “In A Cello-Felt Glare” che si permette finanche il lusso di citare gli Style Council di “Shout To The Top”, fino alle monolitiche mura che circondano “The Beauty Of Liars” prima che la melodia penetri all’interno minandone la compattezza nella parte centrale. Decisamente riuscito anche il saluto ai naviganti, affidato a un brano anfibio come “One Jump Of The Sun” che, perennemente in equilibrio tra la dimensione-ballad e improvvise esplosioni di energia, mette a segno il punto più avanzato di contatto con gli abbandoni malinconico/crepuscolari del gothic/doom d’autore, lasciando intravedere sullo sfondo le nobili sagome di Draconian e Saturnus.
Un ritorno inatteso e convincente dopo un silenzio trentennale che a questo punto acuisce il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e purtroppo non è stato, una sorprendente capacità di riprendere in mano un discorso artistico iniziato sotto i migliori auspici aggiornandolo senza stravolgerlo e senza alcuna pretesa di riportare indietro le lancette del tempo, Cold Soul Embrace è un album che aggiunge all’equilibrio delle forme il tocco magico del coinvolgimento, meritando molto, molto più di una fredda e distratta citazione nel catalogo doom/death di questo 2022. La luce della cometa Enchantment è ancora abbagliante, la speranza e l’augurio è che stavolta i tempi siano decisamente meno impegnativi, per chi ne aspetterà il ritorno.
(Cosmic Key Creations, Transcending Records, 2022)
1. As Greed As The Eye Beholds
2. A Swanlike Duet
3. Paintings Amongst The Feathers
4. Of Glorious Vistas Forgot
5. The Wake Of The Hollering Tide
6. In A Cello-Felt Glare
7. The Beauty Of Liars
8. One Jump Of The Sun