Presentatoci come “quello che succede quando Asthâghul compra una chitarra acustica a dodici corde”, Döth-Dernyàlh è il nuovo full-length della one man band francese Esoctrilihum, che ambisce a coniugare il freddo ed evocativo black metal del gruppo con le sognanti melodie suonate dallo strumento appena acquistato. L’esperimento riesce a metà, con un suono sì sognante ma che a tratti pare incastrato col martello tra le schitarrate e i blast beat che da sempre caratterizzano il suono della formazione, dando un’impressione di disomogeneità e ridondanza tutt’altro che interessante.
L’opera ha la struttura di tutti i lavori su lunga distanza degli Esoctrilihum: una manciata abbondante di canzoni dalla durata medio/alta a comporre una collezione di brani a sé stanti: vere e proprie suites – per usare un termine “tecnico” – che si sviluppano su sé stesse, nascendo e morendo senza dare un vero e proprio contributo alla natura complessiva del lavoro. L’approccio, così inusuale, può piacere o meno, e di sicuro aumenta il senso di estraneità e aliena maestosità che il black metal tecnico e pulito della band è sempre riuscito ad evocare nell’ascoltatore. Come anticipato, l’utilizzo della dodici corde aggiunge al lavoro meno di quello che sarebbe lecito attendersi: a volte il velocissimo cascading del gruppo sfocia in sezioni armoniche come in “Atüs Liberüs (Black Realms of Prisymiush’tarlh)”, altre volte componenti “pulite” vengono sovrapposte al glaciale metallo – vedi “Lüthirkys Spasmuldis (Near Death Experience)” –, creando situazioni interessanti ma che non vanno mai oltre il prevedibile “già sentito”. L’atmosfera misteriosa ed evocativa, tra demoni che vivono tra le stelle e divine entità lunari che gli Esoctrilihum ci hanno insegnato a conoscere, non guadagna e non perde quindi, ma inizia a soffrire, superato il decimo full-length, della ridondanza nella quale è difficile non cascare se sforni un’ora e mezza di black metal all’anno.
Da un artista a suo modo estroverso come Asthâghul, capace di integrare ben più che una chitarra acustica nel proprio repertorio (i synth di Dy’th Requiem for the Serpent Telepath, tra tutti, lo dimostrano) era lecito aspettarsi ben di più. E se si tralasciano gli intarsi acustici (il più bello alla fine di “Zilthuryth (Void of Zeraphaël)” se volete la mia) inseriti o poggiati sopra il metallo, l’album è l’ennesimo, chirurgico, stereotipato lavoro di un musicista che, per come stanno le cose oggi, ha davvero ben poco da dire.
(I, Voidhanger Records, 2024)
1. Atüs Liberüs (Black Realms of Prisymiush’tarlh)
2. Turiälh (The Gloomy Wheel of Confusion)
3. Dy’th Eternalhys (The Mortuary Renewal)
4. Lüthirkys Spasmuldis (Near Death Experience)
5. Zilthuryth (Void of Zeraphaël)
6. Murzaithas (Celestial Voices)
7. Özhirialh (The Mystical Radiance of the Eternal Path)