“Un album coraggioso”… e subito scatta il riflesso pavloviano/condizionato, “ok, abbiamo capito, siamo alla classica promozione più o meno stiracchiata, probabilmente senza infamia ma altrettanto probabilmente senza grandissima lode”. E’ questo, parlando o scrivendo di musica, il rischio che si corre quando, per descrivere un lavoro, si sceglie di utilizzare un aggettivo che effettivamente consente all’ascoltatore di non esprimere un giudizio realmente di merito, limitandosi a sottolineare gli aspetti formali che segnano la distanza da un canone riconosciuto o in voga e lasciando dunque sostanzialmente aperta la partita sul valore dei contenuti.
Ci sono però casi in cui il coraggio è davvero un tratto distintivo imprescindibile e gli artisti meritano di vedersi riconosciuta in premessa quella “forza d’animo nel fare cosa che importi rischio” che la più autorevole enciclopedia tricolore utilizza come locuzione per illustrare la voce in oggetto. Ed è questo sicuramente il caso dei milanesi Eurynome, che hanno deciso di dar vita a un progetto che va ben oltre la dimensione musicale in senso stretto, guadagnando in profondità ciò che rischiano inevitabilmente di perdere sul versante della fruibilità immediata e sul conseguente perimetro della platea potenzialmente interessata alla proposta. Sgombriamo allora subito il campo dagli equivoci, questo Obsequies non è decisamente un album per tutti e l’avviso preliminare ai naviganti non vale solo per la scelta delle acque solcate, cioè quelle tenebrosamente limacciose del funeral doom, ma anche per come i Nostri scelgono di attrezzare la barca salpata alla volta della palude Stigia, in una formazione a due soli elementi e rinunciando oltretutto alle chitarre a favore di un raddoppio delle quattro corde in campo, a incrementare il senso di pesantezza di andatura e architetture. A controbilanciare questa spinta alla magniloquenza, peraltro, provvede l’accorgimento solo apparentemente tecnico dell’accordatura di strumenti e orchestrazioni a 436Hz, come accadeva di prassi nell’Ottocento, conferendo all’impasto un retrogusto malinconico/decadente che si presta benissimo all’habitat cimiteriale scelto dal duo per ambientare una vero e proprio salto nel passato con figure che (ri)prendono vita in un’atmosfera dove più che il buio la vera protagonista è la nebbia. Su tutto, grava l’ombra silente della dea Eurynome che, antica creatrice del mondo nella tradizione pre-olimpica a sfondo matrilineare, viste le offese perpetrate dalla specie umana alla sua “creatura”, si è ormai chiusa in un silenzio eterno e non risponde più alle invocazioni. Ovviamente non mancano i richiami ai numi tutelari del genere (nella circostanza, più Mournful Congregation o Bell Witch che Skepticism, considerata la minore invasività delle tastiere rispetto ai pur divini tappeti stesi da ormai un quarto di secolo da Matti Tilaeus e soci), ma forse la pietra di paragone più immediata è con i norvegesi Funeral, che, prima di virare verso lidi gothic/doom, avevano regalato un debutto da applausi con lo splendido Tragedies. Ad avvicinare Milano alla Norvegia, oltretutto, contribuisce anche il ricorso al cantato femminile, non esattamente un “classico” sulle funeral frequenze, sia pure fatta salva l’avvertenza di non aspettarsi qui l’onnipresenza e il timbro sinfonico di Toril Snyen. E le prove individuali dei due musicisti sono l’arma vincente di Obsequies, a cominciare proprio dall’esordiente Nicole Delacroix, che sfodera un’invidiabile personalità sia nelle citate apparizioni al microfono, sia nei cimenti al basso e al pianoforte, senza contare che sono affidate a lei composizioni e orchestrazioni dell’intero platter, magicamente combinate a generare un flusso atmosferico che, senza sconfinare nel registro melodico, contribuisce in diversi passaggi ad alleggerire il pesante incedere dei brani. L’altra metà del cielo della band, Jacopo Marinelli, è una figura che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare sulla tolda vocale del vascello Esogenesi, che poco più di un anno fa ha illuminato la scena doom/death ben oltre gli angusti confini patri e che ritroviamo qui alle soglie dell’impeccabilità sia con la declinazione sabbiosa del growl di cui aveva fatto ampio sfoggio con la casa madre, sia con la variante catacombale. Sette tracce per cinquanta minuti di viaggio, l’ascolto di Obsequies pretende un’immersione totale e una pari disponibilità al coinvolgimento senza soluzione di continuità, rendendo altamente sconsigliata una fruizione a frammenti, fosse anche solo per isolare i momenti migliori. Certo, sarebbe facile lodare la solennità oscura che anima “At the Solitary Crypt” come una sorta di portale in grado di metterci in contatto con le divinità ctonie o i fremiti quasi teatrali della (opportunamente) chilometrica “Conducting Our Own Funeral” con i suoi spettrali rintocchi di pianoforte, ma interrompere il flusso narrativo comporta necessariamente il rischio di finire “fuori fuoco” rispetto a una proposta che ha bisogno di tempo per de-costruire il reale e proiettarci in una dimensione non soggetta alla dittatura della materia. E’ questo l’approccio ideale per valutare la riuscita di un album funeral doom, diversamente restano solo gli sguardi superficiali e i giudizi sommari di chi vede nella cristallizzazione del ritmo solo l’anticamera della monotonia.
Una sfida ad altissimo tasso di difficoltà vinta con disarmante naturalezza, una prova d’esordio solo cronologica ma sotto cui gorgogliano tratti di solidissima maturità, Obsequies è un album su cui costruire solide fondamenta in vista di una carriera che preveda anche visibilità, indipendentemente dalla ristrettezza della nicchia del genere. Promozione a pieni voti per gli Eurynome, stavolta rischio e coraggio hanno pagato, eccome…
(Autoproduzione, 2020)
1. Eloquence of the Doomsday Fog
2. The Ancient Stele of Eurynome
3. The Dead Warden
4. At the Solitary Crypt
5. Conducting Our Own Funeral
6. One with the Graveyard’s Undergrowth
7. The End of All We Know