Un vascello mediterraneo per varo, nome e origine, in quasi ventennale navigazione nelle acque tempestose dei mari pentagrammatici del Grande Nord. Dovendo ricorrere a un’immagine sintetica che definisca con pochi tratti il senso di un’intera carriera, potremmo forse riassumerlo così, il percorso di una band che, a dispetto di una serie di rilasci sempre abbondantemente al di sopra di una più che dignitosa linea di galleggiamento, è sempre rimasta ai margini dei raggi d’azione dei radar death/doom.
Abbandonato il monicker degli esordi Hexenprozesse e scelto il nome Evadne ricorrendo allo sterminato arsenale della mitologia greca (nella fattispecie, la moglie di Capaneo suicidatasi gettandosi sulla pira funeraria del marito caduto nella guerra dei Sette contro Tebe), i valenciani hanno preso il largo nel 2007 con un’opera prima di tutto rispetto come The 13th Condition, intriso di suggestioni gothic/doom magnificamente sottolineate dalle incursioni vocali e dai ricami del violino di Nuria “Lady Nott” Casals. A dispetto di chi era già pronto a scommettere su una traiettoria artistica potenzialmente coincidente con quella dei conterranei Helevorn, però, gli Evadne hanno quasi subito virato verso lidi doom/death ad alto tasso melodico di classica scuola scandinava, finendo inesorabilmente nel cono d’ombra proiettato dall’inevitabile (e inesorabile, su queste frequenze) incontro con il totem Swallow the Sun. Se, dunque, un lavoro come The Shortest Way ha assolto alla perfezione il compito di apripista per tracciare la nuova rotta, è toccato al successivo A Mother Named Death celebrare il trionfo delle sensibilità distillate con somma perizia nel laboratorio di Juha Raivio e compagni, in un tripudio di malinconici chiaroscuri, atmosfere trasognate e improvvise scosse telluriche. L’avvicinamento all’astro swallowiano, peraltro, è costata ai Nostri una fatale chiamata sul banco degli imputati con l’accusa di essersi spinti troppo oltre sul versante della derivatività, ma va detto che, se pure gli elementi di contatto sono oggettivamente innegabili, dall’altra parte è impossibile non riconoscere (e lodare…) i grandi meriti di un album dall’indubbio respiro internazionale che avrebbe meritato ben altra eco e risonanza. C’era, dunque, una grande e giustificata attesa per il nuovo cimento e davvero questo The Pale Light of Fireflies conferma tutte le qualità finora squadernate dalla band, riuscendo anzi a spingersi oltre le colonne d’Ercole che avevano almeno in parte impedito ai predecessori di aprire le ali al massimo della portata. La prima, ottima notizia in arrivo dai solchi è un ulteriore affinamento degli assi stilistici su cui si incardina la poetica del quintetto, che varca definitivamente il Rubicone dei rapporti con il doom/death atmosferico puntando su eleganza e raffinatezza e potenziando il registro malinconico, per una resa che incrementa senza dubbio la “potabilità” dell’insieme ma mai a scapito della profondità, mantenendosi a più che debita distanza da nefasti esiti easy listening da cassetta. Così, se è pur vero che le reminiscenze Swallow the Sun restano comunque sullo sfondo (del resto, anche il combo di Jyväskylä negli ultimi lavori ha del pari ridotto la carica abrasiva degli esordi lavorando più di cesello che di asce e spade), l’impasto si arricchisce ora di altri, proficui contributi, consentendo agli spagnoli di intercettare quelle sensibilità che, sempre per restare sul suolo finlandese, hanno esaltato proposte dal valore assoluto del calibro di Ghost Brigade e, ancora di più, Hanging Garden. Ecco allora le sei corde di Josan Martìn e Andoni Ros che, senza trascurare gli spunti muscolari comunque previsti dai canoni classici del genere, si esaltano soprattutto quando disegnano arabeschi a volte eterei e a volte struggenti, ma ecco anche una cura complessiva quasi maniacale per i particolari e i dettagli, a conferire un risvolto “sinfonico” all’insieme senza per questo appesantirlo, merce discretamente rara, sulle metal frequenze. A completare e migliorare ulteriormente il quadro contribuisce oltretutto l’attenzione posta al comparto vocale, presidiatissimo sia nella declinazione in scream/growl (qui è davvero da applausi la prova di un Albert Conejero mai così ispirato e capace di maneggiare con somma maestria potenza e impatto), sia nelle incursioni in clean di un ottimo Joan Esmel, sia nelle prove offerte dagli ospiti (particolarmente apprezzabile la scelta di convocare Carline van Roos, in libera uscita dalla casa madre Lethian Dreams e perfetta per iniettare sofisticati vapori che incrementano il tasso di intimismo e introspezione). Otto tracce per poco più di un’ora complessiva di ascolto, The Pale Light of Fireflies riesce nella ragguardevole impresa di non manifestare mai anche un solo calo di tensione, mantenendo sempre altissimo il livello di coinvolgimento emotivo a dispetto di un’apparente semplicità di trame e strutture, prova evidente di un’ispirazione fuori dal comune e di una mano saldissima in sede di scrittura. Con simili premesse, non c’è davvero che l’imbarazzo della scelta per individuare i momenti migliori del viaggio, che risulteranno inevitabilmente frutto del personale gusto nell’approccio alla materia doom/death; per quanto ci riguarda, detto del miracolo di un’opener come “Shadows” che riesce a creare poesia con pochissimi ingredienti o della perla swallowiana del lotto, “Where Silence Dwells” (che non sfigurerebbe come ipotetica ghost track in una riedizione aggiornata di The Morning Never Came), puntiamo dritti sulla clamorosa titletrack con i suoi giochi di stop and go esaltati da una Carline van Roos qui vicina come non mai ai cammei di Aleah Stanbridge in “Lights on the Lake” o “Labyrinth of London”. In alternativa, occhi apertissimi anche sulle spire crepuscolari che avvolgono in modalità ninna nanna “Ablaze Dawn Eyes” o sui contrasti di ritmo che contraddistinguono “Hollow Realms”, dove, ancora al microfono, spicca il lavoro di un altro ospite di eccezione come Jaani Peuhu, oppure su una ballad ipnotica come “Silhouettes of a Faceless Sun”, perfetta per declinare il grigio in tutte le sue infinite sfumature.
Colori pastello, contorni sfumati, intrecci poeticamente magici di luci ed ombre, malinconiche dissolvenze che si alternano a potenti cavalcate muscolari e abrasive, The Pale Light of Fireflies è un album che, senza la pretesa di riscrivere i confini di un genere, riesce nella titanica impresa di trovare nuova e incontaminata linfa vitale in un territorio saccheggiato ormai da decine di incursioni che ne hanno in molti casi irrimediabilmente contaminato le fonti. Gli Evadne hanno definitivamente rotto gli ormeggi, questa è davvero navigazione doom/death d’altura.
(Solitude Productions, 2022)
1. Shadows
2. Under Blessed Skies
3. Where Silence Dwells
4. The Pale Light of Fireflies
5. Ablaze Dawn Eyes
6. Hollow Realms
7. Silhouettes of a Faceless Sun
8. The Vacuum