In un Paese in cui i festival estremi stentano ad affermarsi, e quando lo fanno sono supportati dalle grosse agenzie – e da grossi portafogli – il Frantic Fest appare come un fulmine a ciel sereno. Chi scrive era rimasto affascinato dalla prima edizione, tenutasi lo scorso anno, perché oltre a una line-up di tutto rispetto e una serie di corollari (varietà stilistica delle band, prezzi contenuti) emergeva un sentore di novità percepibile persino a 800km di distanza. E così abbiamo deciso di percorrerli, questi chilometri, in occasione dell’edizione 2018, che già a partire dal bill era da restarci a bocca aperta: Igorrr, Enslaved e Entombed A.D. gli headliner, più un’altra trentina di band nazionali e internazionali di grandissimo spessore, collocati in quel segmento artistico che va dal death metal al neofolk, passando per hardcore e stoner. In pratica: tutta la musica brutta che piace a noi. In queste pagine cercheremo di raccontare cosa è successo il 16, 17 e 18 agosto al Tikitaka Village di Francavilla al Mare (CH).
Prima di addentrarci nel discorso musicale, cerchiamo di inquadrare la situazione: il Tikitaka Village è un complesso sportivo situato appena fuori città, vicino a zone naturali e a poca distanza dal mare. Anche quest’anno è stata allestita un’area camping gratuita per gli avventori del festival, comprendente una zona relax con piscina che, sebbene piccola, ha permesso di rilassarsi in attesa del tour de force dei concerti, contribuendo inoltre a quella piacevole atmosfera di familiarità che ha avvolto il festival per tutta la sua durata.
La presenza di due palchi – small, al coperto e situato vicino all’area di ristoro, e main, che si presenta più grande e attrezzato rispetto alla prima edizione – ha permesso alle esibizioni di avvicendarsi senza sosta dalle 17.30 all’01.00. Nei pochi momenti liberi è stato possibile fare un giro fra gli stand delle distro o riposarsi ai tavoli, posizionati comunque in maniera tale da potersi godere le band anche senza dimenarsi. Il bar, gestito interamente con i token con conseguente annullamento dei problemi di file e attese, includeva anche un menu di cucina con pasta e street food. E sì, ammettiamo che i tradizionali arrosticini abruzzesi avevano stuzzicato la nostra curiosità quasi quanto la line-up, soddisfacendoci infine allo stesso modo.
In più, al fine di scaldare i motori e dare il giusto benvenuto al pubblico dei campeggiatori, la sera precedente l’organizzazione ha messo in piedi una serata di warm-up con la tripletta tutta abruzzese Insane Therapy, Mud e In Vein. Si è, in effetti, rivelata un’ottima soluzione per rompere il ghiaccio, anche perché il pubblico ha ben risposto e le band si sono espresse al meglio, nonostante le avverse condizioni climatiche (per fortuna ristabilitesi durante i giorni del fest). In particolare ci hanno sorpreso gli Insane Therapy, giovane combo deathcore che pur rispettando i canoni del genere non rinuncia alle mazzate, ma non possiamo che esprimere un parere positivo anche per le altre band.
Di seguito il racconto della prima giornata del Frantic Fest 2018, quella del 16 agosto. Fotografie a cura di Benedetta Gaiani.
Frantic Fest 2018
Tikitaka Village, Francavilla al Mare (CH)
Day 1 – 16/08/2018
L’apertura vera e propria del Frantic Fest è affidata a una tripletta per amanti delle valvole e dei suoni acidi: a rompere il ghiaccio sullo small stage sono gli ANANDA MIDA, collettivo psych/stoner guidato dal batterista Max Ear (OJM, Go Down Records). I nostri sciorinano una mezz’ora di psichedelia ruggente e interamente strumentale, molto vintage nelle soluzioni musicali come nell’estetica, suonata con buon gusto e parecchio adatta alle alte temperature. Forse meno indicata per l’atmosfera è la musica dei CARONTE, che inaugurano il main stage con il loro doom metal occulto ed evocativo. Guidata dal frontman Dorian Bones, parecchio calato nella parte e carismatico malgrado la voce sia a tratti poco intelligibile nel mix generale, la band porta a casa una buona performance che si conclude con la lunga e ascetica “Black Gold” tra gli applausi del pubblico, già consistente. Segue a ruota una tra le migliori sorprese del festival: i RUBY THE HATCHET da Philadelphia, quintetto che pare uscito direttamente dai tardi sixties con il suo psych rock elegante ma sanguigno, quasi una versione meno occulta e più frizzante dei Blood Ceremony. Grazie alle pittoresche personalità come quella del tastierista Sean Hur e della bella frontwoman Jillian Taylor e alla performance tecnicamente e stilisticamente ineccepibile, i Nostri si ingraziano senza fatica i favori del pubblico che stipa lo small stage. Sono solo le 19 e sappiamo che ciò che seguirà sarà, in pratica, una scaletta di possibili headliner.
Il sole è ancora alto, infatti, quando salgono sul palco gli UNSANE. Chris Spencer è già incazzato col mondo e comincia a sbraitare dietro al microfono e a far tremare la sua chitarra con i soliti, paradigmatici riff taglienti e armonie subliminali. Dave Curran e Vince Signorelli, dal loro canto, si confermano una sezione ritmica chirurgica. Insomma, siamo di fronte ai maestri del noise, bestie da palco nonostante le diverse primavere alle spalle, che ancora si sbattono fra dischi (l’ultimo, grandioso, Sterilize è stato protagonista della scaletta insieme a qualche classico) e concerti a testa bassa, con sincera attitudine da blue collar. La comunicazione con il pubblico è a zero, ma va bene così. Non una parola, sul palco come nella musica, anche per gli YAWNING MAN – e che dovrebbe dire una band che ha, in silenzio e totalmente fuori dai riflettori, inventato un genere musicale? Ammetto che l’idea di vederli sullo small stage non mi entusiasmasse sulle prime, ma l’emozionalità dell’esibizione ha ottenuto in questo contesto particolare risalto. La band di Mario Lalli è una vera istituzione del desert rock ma si pone, come tutti gli antesignani, su un altro piano: psichedelia, folk, rock, jazz convergono della musica atmosferica, viaggiatrice e del tutto unica dei Nostri. Nella dinamica del trio basso e chitarra si scambiano di ruolo: Gary Arce intesse dei soundscapes cinematici, onirici, riverberati, mentre Lalli fa pulsare il cuore dei brani con melodie rampicanti, sempre elegantissime e con una musicalità che lascia a bocca aperta. Nei commenti appuntati per questo report, alla voce Yawning Man ho solo scritto “senza parole”. Se un certo Brant Bjork li ha definiti come la più grande band che abbia mai visto, non vedo perché noi dovremmo dire altrimenti.
Cambiando radicalmente atmosfera, sul main stage fanno capolino i co-headliner GBH. Ci perdiamo la prima parte dell’esibizione a causa di una necessaria pausa-cena, ma sappiamo già che scena troveremo al ritorno: quattro punk sgangherati sul palco e una bolgia sotto. D’altronde anche il quartetto di Birmingham è una vera istituzione – la terza in serie in questa scaletta, tanto per dire – e non c’erano dubbi sulla riuscita di una performance senza fronzoli e piena di energia, ancora una volta a scapitò dell’età non più adolescenziale. Si tratta di musica di vecchio stampo, già sentita, vero, ma nell’economia di un festival come questo è essenziale ricavare uno spazio per il puro divertimento e la sana attitudine di chi macina i palchi dal 1979.
Siamo quasi giunti alla conclusione, quando l’organizzazione del Frantic palesa alcuni sintomi di sadismo nei confronti del pubblico, catapultandolo fra continui voli pindarici musicali a scapito della propria integrità psicologica. E così fra i GBH e Igorrr (integrità psicologica, dicevamo?) a chiudere le esibizioni sullo small stage è ROME. Il progetto cantautorale del lussemburghese Jérôme Reuter è un po’ la pecora nera (non in quel senso, maliziosi) della scaletta, ma il pubblico del fest è vario come lo sono gli artisti, e dunque anch’esso riceve il giusto consenso da parte di una schiera di fan molto coinvolti. D’altronde la performance è molto emozionante ed intimista: il neo-folk oscuro e marziale proposto contiene in realtà molti spunti melodici, attorniato da una patina di malinconia che riesce a toccare diverse sensibilità, non solo quelle storiche e guerresche a cui i testi fanno riferimento. Brani come “Celine In Jerusalem”, “Blighter” o il singolo di prossima uscita “Who Only Europe Know” sono composti scientemente, così da risultare circolari, orecchiabili senza banalità, nonché particolarmente efficaci in sede live. Con il suo timbro basso e la sua espressione taciturna Reuter narra storie d’altri tempi con musica d’altri tempi, devota forse ai grandi cantautori (Nick Cave, ad esempio) più che alla tradizione europea, supportato da un percussionista e un chitarrista in tenuta militaresca che riempiono la scena e i tessuti sonori, per uno show di gran classe. Nota: oltre al singolo di cui sopra, sono stati presentati alcuni nuovi brani che saranno inclusi nel prossimo album, e anche in questo caso non possiamo che confermare l’opinione espressa in precedenza. Sicuramente tra i momenti più profondi del festival.
Ci troviamo dunque a fine serata, abbastanza scossi per la mole di roba a cui ci siamo trovati di fronte. A darci il colpo di grazia arriva IGORRR: attesissimo da molti, snobbato da altri, il progetto di Gautier Serre è senz’altro un’importantissima new sensation della scena alternativa, e la sua presenza come headliner ha arricchito in maniera sensibile l’interesse verso il festival. Quella che possiamo ormai definire band sale sul palco intorno a mezzanotte e per un’ora dà vita a uno spettacolo grandguignolesco che, nel bene e nel male, non può lasciare indifferenti. Adesso il delirio di Serre è il delirio di quattro musicisti, e riescono a trasmetterlo così bene da essere irresistibili. Laure Le Prunecec è una cantante eccezionale, inutile ribadirlo, che oltre a passare dalla lirica alle urla isteriche con estrema semplicità è tremendamente teatrale in ogni gesto ed espressione. Sul palco riempie gli spazi, si dimena, gioca con il pubblico, vivendo la musica in maniera molto fisica con grande carisma e personalità. A controbilanciarne la bella presenza c’è il mostruoso Laurent Lunoir, che gorgoglia cose in lingue incomprensibili dietro al microfono ma si dimostra anche capace di cantare realmente – e poi è un personaggio davvero assurdo, perfetto per questo contesto circense. Dietro di loro Serre fa il matto insieme al batterista Sylvain Bouvier, precisissimo e con una pacca molto seria, nonostante le difficoltà di suonare senza altri strumentisti, seguendo esclusivamente l’elettronica. Ognuno dei musicisti ha il proprio momento, durante il quale magari gli altri scendono dal palco per un effetto estremamente dinamico, lontano dagli schemi tradizionali del concerto di una band. Parte integrante e inscindibile dello show sono le luci, che contribuiscono alla costruzione di uno spettacolo visivo oltre che uditivo. Con una scaletta che saccheggia perlopiù da Savage Sinusoid, album che ha portato il progetto agli onori della cronaca, Igorrr tramortisce il pubblico per un’ora con uno show che si dimostra decisamente all’altezza delle aspettative, e degno dei palchi importanti che sta calcando. La tabella di marcia prevederebbe ora un DJ set di cui noi, stremati, facciamo a meno: la seconda giornata si preannuncia pesantissima.