È stato pazzesco! Ecco, mettiamo le mani avanti, prima che il mare di parole che stiamo per scrivere soffochi un significato così semplice. La terza edizione del Frantic Fest ha rappresentato, come ci aspettavamo e forse di più, un gran momento per la cosiddetta scena, intesa come comunità di musicisti, pubblico e ogni altro operatore del settore, e quindi anche per noi che la componiamo. Se la seconda edizione, che vi abbiamo raccontato lo scorso anno, ci ha colpito per ricchezza e qualità della line-up, precisione e competenza organizzativa e per l’atmosfera serena e familiare, quella svoltasi dal 15 al 17 agosto 2019 ha vidimato gli spazi a fianco ad ognuno di questi punti, anzi portandoli tutti ad un livello successivo.
L’anno scorso ci siamo affezionati così tanto al fest da ripetere la traversata dalla Sicilia, stavolta a bordo di una leggendaria Multipla con una simpatica comitiva di terroni e un caldo boia. Così, dopo molte ore di viaggio e tutta una serie di aneddoti che non stiamo qui a raccontare, ci ritroviamo in Abruzzo per una quattro giorni da paura.
Dei dettagli circa la line-up e gli spazi del fest vi avevamo parlato in questo articolo introduttivo. Riassumendo: la location è quella del Tikitaka Village di Francavilla al Mare (CH), centro sportivo ben curato con ampi spazi aperti, e che nel corso dell’anno ha incontrato dei rinnovamenti per quanto riguarda l’area interna. In pratica, quello che in passato era lo small stage non esiste più, è diventato un’area food che è stata utilizzata anche durante il fest, rivolta però verso l’esterno. A tal proposito, lo small stage è stato spostato in un’area più grande, a metà strada fra il camping e il main stage, e invero non è neanche tanto small.
Della line-up abbiamo parlato in lungo e in largo nella guida sopra menzionata. A posteriori possiamo dire che l’obbiettivo che si pone l’organizzazione al momento di stilare delle scalette così variegate sia stato raggiunto: la fauna del festival è multicolore, va dal blackster con gli anfibi a ferragosto fino al punk con la cresta, c’è gente che pare uscita da un disco dei Sodom e nuovi appassionati più equilibrati e difficili da inquadrare. C’è anche gente che pare passare di lì per caso: premio alla curiosità. E, parlando di pubblico, non possiamo che sottolineare la crescita in numeri di questa edizione: la prima giornata è andata sold out già nel pomeriggio. Ciononostante, l’atmosfera sembra quella serena e conviviale che avevamo apprezzato lo scorso anno. Su questo torneremo più avanti.
Nonostante il marasma di suoni, stimoli, idee e sensazioni che ci si sono parati davanti in questi tre (più uno) giorni, proveremo a stilare un live report che possa inquadrare quanto avvenuto in quel di Francavilla al Male. Qui il racconto della prima giornata, a cura di Francesco Paladino e Martino Razza. Le foto sono quelle ufficiali del fest, realizzate da Benedetta Gaiani che ringraziamo per la disponibilità.
Frantic Fest 2019
Tikitaka Village, Francavilla al Mare (CH)
Day 1 – 15/08/2019
Il “più uno” di cui sopra si riferisce al fatto che, come lo scorso anno, è stata organizzata un warm up show la sera precedente al fest, serata pensata per i campeggiatori e utile a scaldare i motori. Sullo small stage si sono alternati i giovani sludgers pugliesi Zolfo, autori di una prova granitica a metà fra New Orleans e psichedelia, e i locali 217 e Vibratacore. Fra l’hardcore old school dei primi e l’interessante suono dei secondi, a metà fra grind, crust, death e soluzioni moderne possiamo dire che il fest sia stato inaugurato al meglio, con una bella botta in your face.
Ci troviamo quindi a mercoledì 15 e ci sentiamo già a casa. Considerando la bill importantissima ed impegnativa del primo giorno di fest ed il ritmo alcolico pre-esibizioni – il cui apice pomeridiano viene raggiunto durante il tanto provvidenziale quanto nefasto happy hour di cocktail Monster – la scelta della prima esibizione d’apertura ufficiale pare quantomeno azzeccata. Parliamo del trio argentino IAH che suona sotto il sole cocente delle 17:30, iniziando lo show perfettamente in orario allo small stage e facendo prendere la consapevolezza di quanto il livello sia altissimo fin da subito, con un’esibizione caratterizzata dai migliori stilemi moderni dello space rock e dell’heavy psych con vari richiami al mondo post. Show da vivere magari sdraiati sul prato dell’area small stage, godendosi il flusso musicale unico della band argentina e preparandosi psicologicamente ad una giornata molto impegnativa.
Successivamente viene inaugurato il main stage, compito non da poco, anche considerato il rilievo dei nomi che si avvicenderanno sul palco. Tale mansione viene magistralmente svolta dai romani MASTER BOOT RECORD, scelta in pieno stile Frantic data l’originalità della band, che propone un mix personale tra industrial metal, synthwave e chiptune dalle linee sintetiche di ispirazione neoclassica. Influenze che collimano, come affermato sul palco dallo stesso Vittorio D’Amore (chitarrista, programmer, nonché mastermind di questa distopia cyberpunk) nello stile del “New Wave of Synthetized Heavy Metal”, ovvero una modalità d’espressione tanto unica quanto autentica, considerando come il mondo di D’Amore sia assolutamente ispirato dai videogame e dalla cultura geek. Non è un caso che in scaletta appaiano cover delle theme track dei videogame Doom e Castlevania, nonché un brano scritto appositamente per un gioco di propria produzione, facendo leva sui feels del pubblico con vari riferimenti nostalgici al mondo del retrogaming, ma comunque in maniera assolutamente sincera e sentita, con la naturalezza di un amico che ti passa il controller del player two per affrontare una sessione di gioco notturna. L’esperimento dei Master Boot Record è a dir poco riuscito, anche grazie alla straordinaria presenza alla batteria di Giulio Galati, drummer d’eccezione che ha aggiunto un ulteriore layer di qualità allo show, straordinariamente a proprio agio nonostante il genere più “dritto” rispetto a quanto proposto dai suoi Hideous Divinty e Nero Di Marte. Gli onnipresenti synth e sound fx vengono eseguiti da un computer al centro del palco (con scritto a schermo “Compunet”), scelta stilistica radicale ed artisticamente valida, affidando una sostanziosa parte dell’esecuzione dei brani alla macchina. Tale scelta, per la sua particolarità, non è stata metabolizzata dall’interezza del pubblico, che comunque ha risposto in maniera partecipativa, accompagnando lo svolgimento dello show con grande entusiasmo.
Possiamo dire che il pubblico, già consistente nonostante l’orario, entri pienamente nel mood del fest solo con gli HOBOS, che seguono a ruota sullo small stage. E per non entrare nel mood con i cinque veneti bisogna avere del materiale ligneo nel retto, perché il loro punk metal è irresistibile e dal vivo si esprime nella propria forma migliore. Non che la band faccia i salti mortali sul palco, ma la sola presenza scenica del vocalist Fabione vale lo show, e c’è da dire che anche i chitarristi con i loro berrettini da convegno della CGIL del ’97 sembrano dei discreti soggettoni. Estetica azzeccatissima a parte, i Nostri sono in piena forma – un plauso al batterista, di cui ci sfugge il nome, che è un vero carro armato – e sciorinano poco più di mezz’ora di death n’ roll pescando a piene mani dall’album che sta facendo e farà parlare di loro ancora a lungo, Nell’era dell’apparenza. Cominciano i primi stage diving ed escono le prime teste di cavallo, e siamo felicissimi.
L’assalto di grandi esibizioni continua imperterrito tornando al main stage, in cui già prima dello show si può notare Mike Williams sullo sfondo con un bicchiere in mano ed un sorrisone stampato in faccia. E proprio di questa connessione, fatta anche di liberatoria noncuranza, si caratterizza l’esibizione degli EYEHATEGOD, colossi nonché pionieri dello sludge di New Orleans, che nonostante i background turbolenti tengono il palco con grande sicurezza e nonchalance. Nota di merito per Jimmy Bower, il cui tangibile mood vacanziero e godereccio ha aggiunto qualità e naturalezza allo show. E’ praticamente un turista americano in pantaloncini, occhialoni da sole e costante avvicendarsi di birra e sigaretta, che nel contesto degli Eyehategod non poteva che essere la presenza scenica più pertinente. La scelta di inserire la band di New Orleans in un bill giornaliero con molta attitudine hardcore è stato quantomeno azzeccato, unendo la totalità del pubblico, che ha risposto con totale partecipazione, pur ricordando che Mike Williams riuscirebbe ad agitare le masse ed infervorare gli animi anche ad un convegno di scacchisti.
L’avvicendarsi degli show sui due palchi non lascia posa e ci troviamo catapultati di fronte alla follia del brass metal di OTTONE PESANTE. Il trio faentino o lo ami o lo odi, e noi propendiamo oltremodo per la prima, dato che più li vediamo e li ascoltiamo e più ci rendiamo conto di quanto questo progetto del tutto fuori di testa sia in realtà basato su uno studio e un’analisi certosina della musica metal e dei suoi canoni. Dal vivo la band ha senz’altro una marcia in più, nonostante i suoni a tratti sbilanciati, perché è più immediato rendersi conto del lavoro che c’è dietro, riprodotto in toto da labbra e mani senza ausilio di sequenze o altro, eccezion fatta per la voce di Travis Ryan in “The Fifth Trumpet”. I brani del nuovo Apocalips, poi, sono particolarmente funambolici e tengono in pugno un pubblico che riserva, com’è giusto, un sano crowd surfing a Francesco Bucci. Chitarra o trombone per me pari son.
Sfondiamo ogni barricata per accaparrarci la prima fila al main stage, perché è ora di NAPALM DEATH. Per il sottoscritto sono GLI headliner, e senza nulla togliere agli altri, si tratta dell’esibizione più attesa del fest. E, senza avere nulla da dimostrare, i padrini del grind semplicemente asfaltano il palco sin dalla primissima nota, con un’attitudine per la quale dovremmo solo star lì con i taccuini a prendere appunti. Barney è un frontman di razza, le sue movenze da avvocato in settimana bianca sono ormai iconiche e non possono non coinvolgerti nel profondo per la loro spontaneità. Shane Embury ha un carisma così forte e un’aura così umana che vorresti fosse tuo padre. I quattro inglesi hanno questo dalla loro parte, un’umanità travolgente, sentono ogni nota e ogni parola in maniera istintiva e primordiale. E’ gente che in questo modo ha costruito un pezzo di storia, ma è comunque facilissimo immedesimarsi nella loro foga, nelle loro fisicità e nell’accento di provincia. In scaletta c’è spazio per vari episodi della loro corposa discografia, da “Scum” a “Standardization” passando per “On the Brink of Extinction”, comprese le immancabili “You Suffer” e la storica cover “Nazi Punks Fuck Off”. Mancano alcuni singoloni, ma probabilmente alla band frega ben poco. Sono in pienissima forma nonostante le varie primavere alle spalle e non si fanno remore di sbattercelo in faccia, con la classe di chi macina i palchi da una vita. Impagabile Jimmy Bower seduto sul palchetto della batteria a rompere i coglioni a Danny Herrera mentre suona. Anche questo è Frantic. Working class heroes.
Siamo più morti che vivi e non ce ne vogliano i TOTAL CHAOS se sfruttiamo il loro slot per prenderci una pausa. Pare che i punk californiani stiano facendo molto bene e il pubblico sia gasatissimo, noi però siamo molto meno energici dei Napalm Death e, complici i postumi di una rovinosa partita di calcetto sotto il mezzogiorno abruzzese – partita che i membri di questa redazione hanno vinto, non senza prima dislocarsi una spalla, stirarsi un paio di tendini e rischiare un collasso polmonare – abbiamo necessariamente bisogno di stravaccarci su una panchina e riprendere i sensi.
Siamo però curiosi di vedere in azione gli AGNOSTIC FRONT e quindi raccogliamo le energie per vedere in azione il combo di New York – ne specifichiamo la provenienza, qualora a qualcuno fosse sfuggito. Il loro è uno show da navigati professionisti, per qualità della performance come per carisma sul palco, anche se, c’è da dirlo, rischia di sembrare a tratti manieristico, con la band avvolta nei propri cliché di famiglia, strada, attitudine, New York. E’ questo il modo in cui raccontano la propria storia e la propria città, un po’ come, con altri toni e modi, Woody Allen nel cinema. E’ il loro topic, piaccia o meno, e pare che non abbiano alcuna intenzione di districarsene, come anche dal punto di vista musicale non spostano l’obbiettivo di una virgola. Comunque, il pubblico si fa molte meno seghe mentali di noi e partecipa attivamente, del resto è uno grande show hardcore con tutti i crismi e i brani sembrano creati per cantare in coro con le braccia al cielo e il cuore in mano, per un’esecuzione finale molto intensa e cardiovascolare, malgrado qualche sbavatura nei suoni e la voce un po’ alla canna del gas di Roger Miret. Siamo sicuri che nessuno dei numerosissimi presenti sarà tornato a casa, o in tenda, con l’amaro in bocca.
Se questo è solo il primo giorno prevediamo già di lasciarci il cuore e qualche neurone, qui a Francavilla. Nel frattempo tiriamo avanti fino al provvidenziale happy hour delle 2.00 per poi morire stravolti in tenda, in attesa di una seconda giornata particolarmente oscura.