Il secondo giorno ufficiale del Frantic Fest 2019, quello del 16 agosto, l’alba del giorno dopo ferragosto, è il crocevia tra l’inizio e la fine del fest, il che genera emozioni contrastanti in una maggioranza di pubblico che ha fatto campo base al TikiTaka Village di Francavilla al Mare già da due o tre giorni. Dopo una giornata (raccontatavi qui) in cui hanno preso luogo gli show di band come Napalm Death, Agnostic Front e Eyehategod ci aspetta però una raffica altrettanto impegnativa, perlopiù dedicata a sonorità oscure – una bella cinquina black metal tormenta il pomeriggio – e la tempra dei campeggiatori, specialmente di coloro presenti già dal pre-fest, inizia ad essere messa a dura prova. I momenti vissuti però sono così intensi, entusiasmanti e talvolta surreali (in quale altra circostanza si possono mangiare arrosticini e veder passare davanti Barney dei Napalm Death o Mike degli Eyehategod, probabilmente per avere degli arrosticini anch’essi?) che la memoria, la concezione stessa di tempo viene messa in discussione e gli eventi ed i ricordi vengono vissuti un po’ come in quei film d’avanguardia russi in cui le scene sono disposte in ordine sparso distruggendo una qualsiasi continuità cronologica della trama.
Report a cura di Francesco Paladino e Martino Razza. Fotografie ufficiali del fest a cura di Benedetta Gaiani.
Frantic Fest 2019
Tikitaka Village, Francavilla al Mare (CH)
Day 2 – 16/08/2019
In condizioni differenti sarebbe stato adeguato dormire o lottare contro un hangover feroce fino a sera, ma quando sono i THE HAUNTING GREEN ad esibirsi come primo show della giornata, trovare in un modo o nell’altro la forza e la caparbietà di essere completamente operativi per godersi lo spettacolo diventa imperativo. Al duo friulano va indubbiamente il premio di rivelazione del festival, avendo imbastito uno show intensissimo, oltretutto sotto un sole impietoso, dominato da un post-doom metal con importanti sezioni di tessiture drone incentrato sulla tematica, quantomai attuale, del decadimento naturale e l’inabilità dell’uomo di preservare sano il proprio pianeta. Dunque non potrebbero che essere più che adeguati gli elementi compositivi in gioco, che tingono il set ora di parti di dark ambient dalle venature elettroniche, ora di doom monolitico e opprimente, ora di furiosi pattern realizzati dalla batteria e dalle percussioni di Chantal Fresco, tanto serafica quanto dirompente sezione ritmica della band che tiene il palco con piena naturalezza ed agio in qualsiasi circostanza durante il set, creando un’alchimia intensa e tangibile con Cristiano Perin (chitarra, pad elettronici e voce disperata) alla post-metal maniera, rispecchiando dunque i canoni stilistici del miglior doom, anche sperimentale, odierno e reinterpretandolo in chiave personale, coinvolgendo il pubblico in un rollercoaster di emozioni a cui è impossibile rimanere indifferenti.
Altra storia sul main stage, una storia antichissima, quella raccontata dai SAOR. Eravamo abbastanza curiosi di vedere all’opera la band di Andy Marshall, perché il loro atmospheric black metal a tinte pagan è fortemente evocativo e comporta qualche difficoltà al momento di essere riprodotto dal vivo, specialmente sul main stage e specialmente sotto un sole che, vogliamo ribadirlo, è il peggior nemico nostro e di tutte le band che fanno musica di un certo tipo. In realtà, e forse incontreremo il disaccordo di molti, quella degli scozzesi è stata una performance convintissima. La band è pienamente dentro la propria musica, palesa una buona intesa e interplay, e riesce a riportarci nel proprio mondo atavico e leggendario, nonostante qualche problema di volumi. Sì, sul palco c’è un violinista, e questa può essere una discriminante, ma la band non rinuncia al proprio lato più metal, ad esempio nelle vocals profonde di Marshall, o in un riffing particolarmente serrato. I brani sono lunghi e probabilmente non è facile mantenere l’attenzione per chi non li conosce, dato anche il contesto, ma noi che l’ultimo Forgotten Paths l’abbiamo abbondantemente digerito non possiamo che premiarne la resa live. Piacevole ed emozionante nonostante tutto.
Restiamo in ambito black metal sullo small stage. Il genere è qui convertito nelle sue tinte più oscure, ed è in questo caso quantomai importante, ispirato e ha qualcosa di forte da comunicare. Parliamo dei portoghesi GAEREA, che nonostante le uniche due release alle spalle (tra cui la più recente Unsettling Whispers, che ha costituito la gran parte del set) ed un’attività musicale avviata dal 2016, dimostrano di avere le idee chiare così su disco come sul palco, facendo totalmente fede a quanto registrato ed aggiungendo un surplus di qualità con una presenza scenica non da poco. Ricalcano sì il trend della band a volto coperto, ma non in maniera fine a sé stessa, piuttosto adoperando una copertura totale del volto su cui è riportato un intricato sigillo realizzato da View From The Coffin, che rappresenta appieno l’immagine della band, avendolo anche realizzato in ferro battuto ed esposto sull’asta del cantante. E’ proprio l’anonimo vocalist ad incarnare una considerevole parte della suggestione fornita dalla band sul piano visivo, performando delle ottime vocals ora di disperazione, ora di furia ceca, ed accompagnandosi con delle movenze serpentine ed allucinate che ricordano quasi una creatura mostruosa di Guillermo del Toro, perfettamente in linea con quanto vuole esprimere la musica. Nota di merito va alla copertura di colore nero applicata alle braccia di ogni membro della band, che non ha colato eccessivamente nonostante il sole impietoso delle 19:00 del 16 agosto. A questa luce diamo però una nota di demerito, in quanto, oltre ad aver attentato al make-up ed aver tentato l’asfissia della band sotto la copertura del volto, ha intaccato il piacere di uno show che sarebbe stato più adeguato godersi nell’oscurità. Insomma: il sole è ancora una volta il nemico. Nonostante tutto, i Gaerea hanno tirato su uno show di altissimo livello, rappresentando un momento di estrema qualità del festival. Non ci stupirebbe trovarli, tra qualche tempo, fra i grandi nomi del black metal moderno europeo.
La costante processione tra i due palchi continua tornando al main stage, dove il compito di accompagnare al crepuscolo la seconda giornata del Frantic Fest spetta ai MIDNIGHT. La one mand band dell’Ohio, che dal vivo diventa un trio, il cui nome risiede nell’olimpo delle massime cariche in materia di culto del black n’ roll, ricalca le orme del migliore heavy/speed metal ottantiano con piena attitudine black della prima ondata, risultando in una commistione primordiale e selvaggia il cui livello di sobrietà e regolatezza sprofonda sotto lo zero. Ciò viene portato pienamente sul palco, sul quale i Midnight mettono su uno show nel vero senso della parola, alla old-school maniera, lasciando ad altri settori i cannoni spara coriandoli/schiuma/cose ed i lanciafiamme (oltretutto non facendone sentire assolutamente la mancanza), rappresentando la band stessa la totalità dello spettacolo. D’altronde tutto il resto risulta superfluo quando sul palco si esibiscono Athenar e due bestie non identificate ad egli pari alla batteria ed alla chitarra, suonando brani dall’emblematico Satanic Royality, nonché alcune tracce anche dal resto della discografia, passando anche dalla sezione primigenia di EP e split. Chiaramente la risposta dal pubblico è stata sopra le righe come da aspettative, in un loop di incitazione band-spettatori e spettatori-band culminato con lo strappare le corde del basso per donarle a coloro che sotto il palco hanno goduto di uno spettacolo svincolato da ogni posatezza e che ha riportato alla mente i fasti di un’attitudine metal seminale, senza scadere in nostalgie fini a sé stesse, piuttosto contestualizzando lo show al periodo attuale. I Midnight, ridando lustro alle glorie di un periodo che oggi potrebbe risultare remoto, sono comunque sempre un passo avanti a tutti.
Ci rendiamo conto, con estremo piacere, che sta per fare buio quando ci spostiamo sullo small stage, già illuminato dalle caratteristiche luci verdi e sul quale campeggia il banner dei SELVANS. Eravamo curiosissimi di vedere all’opera i padroni di casa, tra l’altro nel contesto delle colline abruzzesi che circondano l’area del fest e finalmente con le condizioni temporali adeguate. Come e più che per i Saor, la dark italian art dei Nostri è di difficile riproduzione su un palco, specie se pensiamo all’ultimo, ambiziosissimo Faunalia e alle sue complesse stratificazioni sonore. Si tratta di un discorso di atmosfere e sensazioni, tra l’altro assolutamente personali, di cui la band si fa portavoce e che devono essere trasmesse. Sin dai primissimi momenti ci rendiamo conto che gli elementi nel trasferimento da un ascolto in studio al live sono, in parte, compensati dalla ricerca di una teatralità avvolgente, con vestiario apposito, maschere e utensili. La figura da mostruoso mattatore di Selvans Haruspex ci riporta ad un passato prossimo, a un Abruzzo contadino e intriso di folklore rurale, e non possiamo che ritenere lo show parecchio suggestivo, dato anche il contesto in cui ci troviamo. I brani vengono riprodotti in tutte le proprie architetture con l’ausilio di sequenze, il sound è equilibrato ma dal palco emerge per forza di cose un’impostazione più metallica che si fa largamente apprezzare. L’ultimo album sopra menzionato è protagonista dello show, ma c’è spazio anche per una “Versipellis” da Lupercalia che ci emoziona parecchio, come sicuramente emoziona un pubblico che stipa lo small stage dedicando alla band una certa attenzione.
La carrellata di black metal di questa seconda giornata si chiude con una band che in realtà il genere l’ha assorbito, modellato e potremmo dire abbandonato già da qualche tempo. I PRIMORDIAL sono alla loro prima uscita open air italiana e il pubblico, malgrado sia oggi meno numeroso rispetto alla prima serata, li tributa calorosamente com’è giusto che sia. La band è in pienissima forma e si lascia andare a un’ora di questo loro metal sui generis, che oggi palesa un’influenza heavy/epic non da poco, reinterpretando il folk delle origini senza strumenti folk, con un approccio prog al riff glaciale che ricorda gli ultimi Enslaved, visti sullo stesso palco lo scorso anno, o i Borknagar. Lo schema è più o meno simile in tutti gli episodi proposti, da “To Hell or the Hangman” a “Empire Falls”, con una band che marcia come una falange di guerra tramite riff circolari, ritmiche marziali e assenza di dinamica, lasciando comunque spazio a qualche bordata proveniente da momenti della discografia meno recente. Anche in questo caso a farla da padrona è una teatralità di fondo mai eccessiva, impersonata dall’iconico frontman Nemtheanga, che fomenta il pubblico con in suo timbro un po’ da musical del metallo. Show, nel suo complesso, dall’altissimo livello professionale: per noi che non avevamo mai approfondito più di tanto gli irlandesi è stata una piacevole sorpresa.
E invece aspettavamo con trepidazione i MESSA, e come noi, evidentemente, tanti altri avventori, dato che ci approssimiamo allo small stage e c’è già una calca pazzesca. Ci guadagniamo le prime file mentre i veneti stanno salendo sul palco ed è subito un’esperienza: ci bastano pochi secondi per capire che non è hype, non è marketing. Sono svariati i motivi per cui consideriamo Feast for Water un instant classic, e li abbiamo tutti toccati con mano durante lo show: da quest’intrigante unione di doom moderno e atmosfere dark jazz d’altri tempi alla cura maniacale per i suoni, dalla capacità compositiva non trascurabile alla gran voce di Sara, fra i trademark della band. I Nostri riescono a riportare sul palco le atmosfere fumose di “Leah”, “Snakeskin Drape”, “She Knows” e altri senza perderne in consistenza, guadagnandone anzi in wattaggio e in peso emotivo. A guadagnarne è anche la chitarra di Alberto Piccolo, funambolica, precisissima e di gran gusto negli assoli come nelle ritmiche; e in particolare risalto sono proprio le ritmiche stesse, grazie a un interplay meticoloso ma mai freddo. Su questo schema si ergono delle vocals che definiremmo, senza timore di smentita, perfette, portatrici di una femminilità oscura ma purissima, che non ha bisogno di esporre ma di esporsi, internamente. Il culto dei Messa è, in effetti, il culto di sé stessi, una sorta di auto-esplorazione dei propri abissi. Sono pochissime le parole e i gesti sul palco, ad esprimersi è la classe di quattro musicisti che hanno trovato la propria dimensione, e coniugano forma e sostanza. Fra gli highlight del festival a mani basse.
Siamo stremati da quella che è stata una delle sezioni più impegnative del fest, e per quanto ci riguarda potremmo anche chiudere qui. Gli headliner della serata sono però i VOIVOD e non ce li perdiamo, sia per dovere di cronaca che per la voglia di vedere all’opera gente che si sbatte sui palchi da circa trent’anni. E questa rimane la nostra opinione durante e dopo lo show: la band mette sul piatto un professionismo invidiabile, con quelle ritmiche articolate e meccaniche, quel riffing chirurgico e un timing da manuale. Sembra di assistere a un unico, lungo spettacolo granguignolesco, come un circo futuristico e spaventoso, giocato su una forte propensione alla bizzarria e alla ricerca – da qui ci rendiamo conto di quanto l’epiteto di Pink Floyd del metal sia più che meritato, specialmente riferendoci ai Floyd più allucinati. Però c’è un però, e qui rischieremo una querela dai paladini del metallo: in maniera analoga a quanto accaduto per gli Agnostic Front la sera prima, ci sentiamo di fronte ad uno spettacolo di prima categoria, a cui però restiamo quasi indifferenti. Certo, entrano in ballo i gusti personali e la spossatezza, ma sicuramente i canadesi non rientreranno fra i nostri momenti preferiti di questo Frantic. Siamo certi che per molti altri astanti sarà così, perché erano in tanti ad aspettarli e tutti super partecipi sotto al palco: ad ognuno il suo.
E ad obnubilare i nostri animi subentra anche un certo senso di nostalgia preventiva, quando ci accorgiamo che manca solo l’ultimo giorno di fest e poi sarà il momento dell’arrivederci. Cerchiamo di stare in giro fin quando le nostre facoltà psicomotorie ce lo permettono, corroborati dai soliti arrosticini e spremendo quei vodka Monster fino all’ultima goccia, esattamente come spremiamo questi momenti per trarne il meglio, perché al Frantic – se non l’aveste capito – si sta benissimo.