Si ritorna sul luogo del delitto. Dopo la festa Go Down Records del 25 settembre 2021, la storica etichetta veneta ha deciso di replicare l’evento in occasione dei 19 anni di attività, chiamandolo Go Down Records 19th Anniversary Party, ed anche per dare una nuova possibilità di festeggiare a chi aveva preferito non correre rischi durante la scorsa edizione date le varie limitazioni ancora attive causa pandemia. Viene scelto nuovamente il leggendario Bloom di Mezzago (verranno sfruttati entrambi i palchi presenti, quello base al piano terra e quello del cinema al piano superiore) per questa serata che vede all’opera una lineup differente ma sempre improntata sulla qualità.
Il sottoscritto si è concesso il lusso di fermarsi qualche giorno nei paraggi per gustarsi anche il concerto dei Come (avvenuto la sera precedente) e rilassarsi, decidendo di arrivare di buon ora per godersi tutti i gruppi che sarebbero intervenuti durante la serata. Si incontrano subito amici e conoscenti immergendosi immediatamente nella tipica atmosfera del locale che non ha mai perso quel mood distintivo. Il pubblico è ancora poco vista l’ora ma con l’avvicendarsi dei gruppi aumenterà in maniera più consistente.
Si inizia con un evento un po’ particolare, data la mancanza di band o musicisti, ossia la presentazione del libro Veleno Sottile – La storia degli Screaming Trees (pubblicato dalla Tsunami Edizioni) scritto e presentato da Davide Pansolin (Vincebus Eruptum Recordings). Sarebbe stata interessante una vera e propria intervista all’autore ma si è deciso di puntare su di un simil monologo. L’evento è stato comunque decisamente interessante e ben supportato dai presenti che hanno avuto l’opportunità di sentire qualche aneddoto o particolare dal libro. Seppure il pubblico fosse davvero risicato c’è stata partecipazione ed attenzione all’opera che è stata prontamente acquistata da parecchi appassionati nell’area merchandise.
I tempi sono stretti quindi ci si reca di sopra per assistere agli opener della serata, i The Hornets da Modena capitanati dai fratelli Stefano e Alberto Francia. Il quartetto nostrano, forte del debutto Heavier Than A Stone, si presenta al pubblico in maniera molto energica e quasi punk nel suo essere grezzo e stradaiolo. I suoni forse non valorizzano al meglio i Nostri a causa di un sound un po’ soffocato che in parte mina l’esibizione. Il loro rock’n’roll sfrontato da arena è comunque energico al punto giusto e rispetto alla versione in studio riesce a dare un’impressione migliore. La mezzora a disposizione scivola via bene fra pose da rockers, melodie e potenza. Serviva però più adrenalina negli strumenti.
Si prosegue con i The Pretty Face, una piccola leggenda del circuito milanese e non solo, che esordirono nel lontano 1997. Il loro garage rock sessantiano dalle tinte psichedeliche (un mix di Sonics, Who, Kinks, 13th Floor Elevators e tanti altri rimandi) dal vivo è di attitudine molto diretta ed asciutta che non si perde in inutili derive lisergiche. Si può criticare per il fatto che il sound sia derivativo, il che ci può anche stare ma la carica che il quartetto sprigiona dal palco è indiscutibile. Il cantato ruvido del cantante chitarrista Federico con i rifff infuocati trasmettono pura energia, la collaudata sezione ritmica di Stefano e Carlo non sbaglia un colpo, mentre l’organo di Filippo dona quel retrogusto vintage che non guasta mai. Una setlist veloce che fa scorrere il tempo nel migliore dei modi.
Si accumula un po’ di ritardo nelle esibizioni. Tocca ora ai veneti The Sade che pubblicano proprio in questi giorni il nuovo disco Nocturna e che da diverso tempo vedono al basso la nuova arrivata Silvia, in sostituzione di Marco oramai impegnato a tempo pieno con i Messa. Anche per loro purtroppo ci sono dei problemi di suoni e ne viene fuori uno show confuso. La voce e la chitarra di Andrea sono parecchio basse e pure la batteria di Mattia, che di solito non lascia respiro per velocità e ferocia, non bastona come dovrebbe. I pezzi si susseguono in maniera incerta spaziando fra gli album finora pubblicati ed offrendo ai presenti una buona panoramica del mix sonoro del trio. C’è il gothic rock, la new wave ottantiana, il punk ed altre diverse influenze che vengono ben fuse assieme con in più un interessante lavoro di basso massiccio e distorto (Silvia arriva dai Kröwnn, ottima band del giro stoner/sludge locale) che potrebbe portare a nuove soluzioni sonore. In definitiva il concerto si lascia ascoltare ma i vari problemi hanno purtroppo segato le gambe all’esibizione.
Ci pensano gli Small Jackets a risollevare l’andamento del festival. Chi li ha visti dal vivo sa che difficilmente deludono e anche stasera non ci sono stati prigionieri. Da diversi anni con un nuovo vocalist (più aggressivo ma comunque adatto al sound) e forti di un recente e bellissimo disco chiamato Just Like This (qui la recensione http://grindob.cluster100.hosting.ovh.net/2022/03/01/small-jackets-just-like-this/), i quattro musicisti romagnoli devastano letteralmente il palco con un rock’n’roll tiratissimo, sguaiato e stradaiolo ispirato sia dalla scena rock scandinava (The Hellacopters e company) sia da quella garage sessantiana di MC5, The Stooges e Blue Cheer. Un concentrato quindi di melodia e durezza pieno di riff velocissimi, assalti di batteria (Danny è sempre in gran forma), vocals al vetriolo e tanti cori da pugni in aria. Rispetto al passato c’è una minore varietà di stili (il precedente cantante Luca, presente fra il pubblico, era più votato all’evoluzione) e si decide di concentrarsi su brani molto “in your face” intonando ritornelli di facile presa e questo concerto ne è chiara espressione di intenti che lascia tutti i presenti con la voglia di rock anche dopo l’ultimo brano.
Manca ancora molto alla fine eppure non si sente troppo la stanchezza dato che i set delle band sono brevi e si è deciso furbamente di non allungare troppo le tempistiche. Arrivano poi i Da Captain Trips che si rivelano una piacevole distrazione al sound magari più rumoroso dei gruppi precedenti. Il combo si presenta in veste strumentale ma, se in passato era più orientato alla jam session, non punta a lunghissimi trip sonori senza fine ma ad una forma canzone decisamente atmosferica ed ipnotica che si ispira tanto alla psichedelia acida degli anni Sessanta, al kraut rock ma anche ad un certo shoegaze. I brani sono eterei, melodici ed allo stesso tempo intriganti e cerebrali e disegnano una band forte e dalle idee con delle solide basi.
Ci si concede un piccolo momento di relax all’aperto in attesa poi di una band decisamente amata dal pubblico, i Mother Island, ma che il sottoscritto continua ancora a ritenerla del tipo da “non si applica”. La loro tripletta di album (Cosmic Pyre del 2015, Wet Moon del 2016 e l’ultimo Motel Rooms del 2020 di cui trovate qui la recensione http://grindob.cluster100.hosting.ovh.net/2020/04/12/mother-island-motel-rooms/) sebbene mostri qualche elemento di interesse, dal vivo tende a mostrare pregi e difetti (purtroppo quest’ultimi non sono pochi) di una scrittura non sempre incisiva. Il loro voler riproporre il pop sessantiano di gruppi come Jefferson Airplane, Beatles e Velvet Underground con un pizzico di originalità non è male alla base ideologica. Il problema sussiste per l’appunto quando il songwriting non riesce a convincere soprattutto in sede live. I pezzi sono ripetitivi, spenti e mancano in primis di una voce che illumini. Per quanto intonata e di bella presenza, la vocalist Anita viaggia con il freno a mano tirato e con un cantato troppo monocorde ed inespressivo, tristemente incapace di dare quella sferzata di energia in più. Le chitarre mancano altresì di forza e vigore rimanendo in quel limbo protettivo/eccessivamente intellettuale e mai troppo rumoroso. La sezione ritmica fa quel che può ma sono le colonne portanti ad essere fragili ed anno dopo anno si sgretolano anziché solidificarsi. Concerto nuovamente e tristemente pallido ed incolore privo di quell’eleganza e vigoria che necessiterebbe.
Fortunatamente ci pensano gli ultimi due gruppi a risollevare la situazione. Iniziano i The Lu Silver String Band ovvero il nuovo progetto di Luca, ex vocalist dei colleghi Small Jackets e soprannominato iconicamente ed ironicamente “Mr. 6000 Vittime” (di Fantozziana memoria). Qui il sottoscritto è in preda al pericoloso binomio gusti personali/oggettività in caso di confronto con la precedente band di Luca. Però fin dai primi brani è innegabile che la band ha una marcia in più non tanto per impatto ma per la sostanza. Sarebbe come paragonare AC/DC e The Cult. Luca non punta mai sull’assalto rock fine a sé stesso ma lo contamina in maniera raffinata con il blues, il boogie, il soutthern rock, un certo pop sessantiano (il suo ultimo disco solista, Luneliness, ne è pura espressione, qui la recensione http://grindob.cluster100.hosting.ovh.net/2022/06/29/lu-silver-luneliness/) ed in generale un modo di esprimere la sua musica in maniera più emozionale. I musicisti sono rodati e si lanciano in una setlist che mescola il rock’n’roll più viscerale e carnale a momenti più melodici di ampio respiro che denotano attenzione per la varietà e tanta classe.
La fine si avvicina inesorabile eppure c’è ancora tanta voglia di musica, tanta musica e non si poteva non finire in bellezza con lo show del duo chiamato The Devils direttamente dalla Campania. Chi scrive li vide nel 2017 di supporto ai Boss Hog e già allora ne fu colpito per energia ed una certa sfrontatezza che dava quel pepe in più. Il duo, composto dalla cantante/batterista Erika e dal chitarrista Gianni si presenta con un atteggiamento che non è più nemmeno provocatorio ma anzi, è un continuo show nello show senza pudore. Il loro mix di rock’n’roll stridente, garage, punk e blues sparato a mille alla maniera dei Motörhead o anche dei White Stripes negli anni ha assunto una forma ancora più micidiale denotando un miglioramento notevole soprattutto in ambito live e di “spettacolo”. I riferimenti sessuali volutamente estremizzati, contro un bigottismo ancora presente al giorno d’oggi, sono diventati una costante. Erika è una belva da palcoscenico e non sta ferma un attimo fra pestaggi di tamburi, urla punk e movenze in giro per il palco che lasciano poco spazio all’immaginazione. Dall’altra parte la furia chitarristica di Gianni che spara riff a ripetizione sporchi ma sempre pieni di groove fondendosi perfettamente in un perverso universo sonoro che potrebbe fuoriuscire da un’opera di Lars Von Trier mischiato a Lydia Lunch.
La serata finisce fra sorrisi generali e risate che continueranno la mattina dopo in hotel prima di ripartire verso casa.