
Quello degli Hateful Abandon è un ritorno che non ci saremmo mai aspettati, li consideravamo infatti ormai morti e sepolti, e invece, eccoli qui, con un album (Threat) che ce li mostra, dopo una decina d’anni, in grandissima forma, e in grado di raccontare, in modo impeccabile, quel mondo disgregato che abbiamo davanti agli occhi, che detestiamo soltanto a parole, ma che, nella logica dei fatti, invece troviamo adatto al nostro quieto vivere improntato ad una pigrizia mentale deprimente. La band ha scelto di non andare a modificare gli ingredienti della propria ricetta. E ci ripresenta, pur se contestualizzato, il suo caratteristico sound, figlio dell’incontro/scontro tra post-punk e industrial in salsa anarcopunk. Un sound che ha mantenuto vivo tutto il suo impatto, grazie anche ad una presa di coscienza che ha permesso agli Hateful Abandon di mettere nuovamente a fuoco tutte quelle idee di ribellione che infiammavano i loro cuori, ancor prima che le loro menti.
La loro è una disillusione ormai esacerbatasi e trasformatasi in rigetto, in odio, in idiosincrasia verso un mondo moderno che fagocita i più deboli, gli ultimi, gli indigenti, i diversi. Ed è proprio qui, in questo contesto politico che la componente concettuale, legata alla ribellione, alla (disattesa) lotta di classe, che emerge fragorosa e travolgente. La loro è una visione del mondo distorta, paragonabile a quella di chi si guarda attraverso uno specchio rotto che rimanda un’immagine deformata e storpiata, e non si riconosce. Una visione che, per loro, nati e cresciuti durante il periodo thatcheriano del Regno Unito, non può che essere orientata verso un dissenso anarchico che risulta inevitabile in una società idealmente post-capitalistica, ma in realtà ancora chiusa in se stessa, e incapace di guardare all’uguaglianza sociale. Gli Hateful Abandon sono una band affine alle idee controculturali che non ha mai sepolto l’ascia di guerra, e che, anche oggi, con il suo mix di sonorità aliene e disturbanti, ma perfettamente organizzate, dice la sua in ambito sociopolitico, ma lo fa senza eccessivi istrionismi cacofonici, restando cioè sempre concentrata sull’obiettivo di andare a colpire duro, meglio se due volte, per ribadire il concetto nel caso non fosse chiaro.
Threat è, in sostanza, un album che dichiara guerra alla modernità che ha disintegrato lo stato sociale, un album sostanzialmente pessimista, che si nutre di suoni grezzi e diretti, ma articolati e molto ben definiti, e che si allinea ad un approccio che vede nel rumore industriale urbano, freddo e angosciante, uno dei suoi maggiori punti di riferimento. Un album figlio di un nichilismo britannico anni Ottanta che quindi non possiamo non vedere come un atto politico a tutti gli effetti. Un album che cerca di ricreare (o di riportare in vita, a seconda dei punti di vista) un linguaggio sonoro che credevamo defunto, e che non insegue canzoni o musicalità, ma che intende lanciare un messaggio chiaro – distruggere tutto per poi ricostruire, con una nuova scala di valori. L’eco di un abbandono post-industriale risuona sullo sfondo, mentre, una volta concluso l’ascolto torniamo a rimettere il disco da capo, perché un album così non smette di suonare anche quando lo metti in pausa.
(Sentient Ruin Laboratories, 2025)
1. Nuclear Thread Worker
2. Shithouse
3. Shimmer Road
4. Scavenger
5. Waster
6. Dome
7. The Grid
8. Sculptures


