Un gigantesco Nulla creato dal Potere, che tutto assorbe e tutto divora, lasciando gli individui in una lacerante solitudine ma con l’illusione di essere centro e misura di tutto. Un Presente che ha cannibalizzato il Futuro e trasformato il Passato in una mitica età dell’oro che riemerge con le vesti inoffensive della Nostalgia e depurato da qualsiasi velleità rivoluzionaria. Dalla politica all’immaginario collettivo, passando per l’arte, la musica, il cinema e gli stessi spazi fisici dell’umana convivenza, pochi altri pensatori hanno saputo posare uno sguardo altrettanto lucidamente critico sulla realtà come Mark Fisher, morto suicida nel 2017 vittima di quella stessa depressione che aveva così nitidamente diagnosticato come malattia sociale e non individuale del nostro Sistema. La chiave di volta del pensiero fisheriano, che ha solide radici nelle riflessioni del filosofo Jacques Derrida e della sua “Hauntology”, risiede nella consapevolezza che viviamo in un’epoca in cui l’idea dei futuri perduti produce fantasmi che imprigionano e immobilizzano, azzerando le spinte verso un mondo alternativo costruito su basi meno alienanti. Ecco allora spiegato il titolo di un libro come Spettri della mia vita ed è proprio questi Espectres che gli Helevorn scelgono di incontrare e guardare negli occhi per la loro grande rentrée dopo oltre cinque anni di silenzio.
Diciamo subito che la prova a cui erano attesi i ragazzi delle Baleari era di quelle da far tremare i polsi, trattandosi innanzitutto di dare un degno erede a quell’Aamamata che nel 2019 è entrato prepotentemente nel ristretto novero delle imperiture meraviglie planetarie in ambito gothic/doom e, se a questo aggiungiamo una line-up quasi interamente rinnovata, i rischi di deludere le attese erano oggettivamente dietro l’angolo, ma, ancora una volta, il combo capitanato da Josep Brunet regala un gioiello purissimo che conferma la (meritatissima) collocazione della band nell’empireo del genere. Anche stavolta, infatti, agli Helevorn riesce il miracolo di maneggiare la materia gothic senza qualsivoglia rischio di deriva lacrimosa fine a se stessa e senza concessioni a quel sentimentalismo ostentato che spesso è finito nell’occhio del ciclone delle critiche di chi mal sopporta i languidi abbandoni declinati in chiave metal. Il segreto evidentemente ormai di casa a Palma di Maiorca è saper coniugare un’eleganza e una raffinatezza di scrittura incredibili con un’innata capacità di disegnare traiettorie sonore evocativamente emozionanti, andando oltre la dimensione individuale abitualmente associata al genere quasi per riflesso pavloviano e puntando invece su una riflessione che coinvolge l’intera specie umana. Ad andare in scena è allora una sorta di chiamata in causa collettiva, che rende acuti e plasticamente percepibili il dolore e la sofferenza frutto della distanza tra il mondo che avremmo potuto (e dovuto) creare e quello che abbiamo colpevolmente costruito condannandoci all’alienazione (ed è qui che si riannodano i fili con l’illustre predecessore e la sua tragica epopea di altri “sconfitti”, i respinti sulle spiagge e ai confini). Con simili premesse, non stupisce che, pur non mancando passaggi crepuscolarmente orientati sulla scia della lezione Katatonia e ultimi Anathema, il cuore dell’album batta soprattutto nella drammatizzazione delle trame e nella grandiosità delle visioni, in un percorso che conduce inevitabilmente al cospetto della sacra triade Swallow the Sun/Saturnus/Draconian, le cui tracce peraltro vengono calcate con il dovuto senso dell’equilibrio e con un carico di personalità che garantisce le opportune distanze. Il ruolo di gran maestro cerimoniere spetta immancabilmente a Josep Brunet, a cui ormai va stretta anche la definizione di fuoriclasse del microfono e che andrebbe catalogato a metà strada tra lo strumento aggiuntivo e l’arma definitiva, nelle note a piè di album. Titolare di un growl potente, perfetto per accompagnare i momenti più cadenzati e di uno scream all’occasione spigoloso ma mai brandito per lacerare le trame, il vocalist si supera quando sfodera un clean in grado di coprire l’intero spettro del cantato, dalla modalità “interprete puro” alla funzione narrativa quasi da cantastorie fuori campo, passando per qualche riflesso voluttuosamente decadente. Intorno a lui, tutta la (quasi completamente) nuova squadra si muove con i tratti distintivi dell’impeccabilità, dalla coppia di sei corde Vizcaino/Correa al basso di Jose Rubio Rodriguez, fino alla prova da turnista di Sebastià Barceló alle pelli. Una citazione particolare va senz’altro spesa per Pedro S. Bonnín a piano e tastiere, degno erede di Enrique Sierra nel mai semplice compito, a queste latitudini pentagrammatiche, di dispensare dosi di melodia in grado di spalancare spazi intrisi di lirismo senza annacquare l’imponenza dell’impianto complessivo. Come se non bastasse, gli Helevorn hanno per l’occasione convocato a convegno anche diversi ospiti, tra cui spicca sicuramente il nome di sua maestà Thomas A.G. Jensen, in libera uscita dalla casa madre Saturnus e chiamato a far calare il sipario sul viaggio nella conclusiva “Children of the Sunrise”, ma puntiamo convintamente i nostri cents anche sulle magnifiche incursioni vocali di Innes Gonzalez, musa delicata e commovente in controcanto nella traccia a conti fatti a più alto tasso di ortodossia gothic del lotto, “L’endemà”. Otto tracce per poco più di quarantacinque minuti di ascolto complessivo, Espectres offre un saggio dello straordinario livello di maturità raggiunto dalla band (a proposito, auguri d’obbligo per un moniker che quest’anno festeggia il quarto di secolo di attività) ed è impresa davvero ardua indicare i picchi qualitativi di un lavoro che non conosce cali di tensione o ispirazione, candidando autorevolmente qualunque episodio al potenziale ruolo di best of della compagnia. Non resta quindi che l’imbarazzo della scelta, a cominciare dagli echi Paradise Lost dell’opener “Inherit the Stars” o dal saggio di disarmante semplicità di “The Defiant God”, dove uno stop and go seguito da pochi rintocchi di pianoforte proietta in dimensioni struggenti, per passare al giro di synth alle soglie dell’easy listening di “Signals” e alla malinconia fiabesca e in dissolvenza di “When Nothing Shudders”. Per gli amanti delle nebbie che rendono incerti contorni e colori, la fermata d’obbligo è “Unbreakable Silence”, con le sue spire languide che avvolgono e quasi abbracciano paesaggi polverosamente sabbiosi, ma c’è spazio anche per la materia nella sua tradizionale veste fisica e corporea, con una “The Lost Futures” che si inerpica su austeri contrafforti doom attraversati da notturne linee melodiche. Forse però, a conti fatti, è inevitabile assegnare la palma d’oro, o quantomeno un premio speciale della giuria, alla citata “L’endemà”, ottovolante emozionale che riconcilia con un genere che, nelle mani di chi abbia davvero qualcosa da trasmettere, dimostra di poter contare ancora su frecce incantevolmente preziose, al proprio arco.
Musica e pensiero in indissolubile intreccio a generare un connubio da cui scaturisce Arte, eleganza e raffinatezza che non sono mai vuote forme ma strumenti per indagare sia l’alto dei cieli a cui come specie saremmo teoricamente chiamati sia le profondità abissali del misero quotidiano a cui (ci) siamo condannati, Espectres è molto più dell’atteso ritorno di una band capace in passato di far gridare al miracolo. Per chi pensa che il nostro Tempo vada guardato negli occhi e non solo banalmente e ipocritamente attraversato, gli Helevorn sono la colonna sonora ideale, a ricordarci che siamo anche polvere di stelle, oltre che freddi aggregati di atomi.
(Meuse Music Records, 2024)
1. Inherit the Stars
2. The Defiant God
3. Signals
4. When Nothing Shudders
5. Unbreakable Silence
6. L’endemà
7. The Lost Futures
8. Children of the Sunrise