Come ci è capitato più volte di ripetere (peraltro proprio recentissimamente in sede di recensione dell’ultimo, ottimo lavoro dei Mairu), la scena post-metal internazionale di questa terza decade del secondo Millennio può contare su due solide certezze: innanzitutto la conferma della vitalità di un genere che, anche a dispetto delle profezie funeste di non pochi detrattori, continua a riscuotere interesse e consensi, ma anche, non meno significativamente, il progressivo allargamento “geografico” dei confini in cui la materia di antico conio neurosisiano viene modellata e ricombinata. In questo processo, mentre le storiche roccaforti scandinave e nordamericane continuano a essere saldissimamente presidiate, la scena inglese ha rapidamente colmato un oggettivo gap maturato nei primi, eroici anni dell’epopea post-, presentandosi ormai come centro di eccellenza e garanzia di qualità.
Non è certo il frutto di una semplice congiunzione astrale favorevole, quindi, che il catalogo in arrivo dalla terra d’Albione, proponendo moniker e release che meritano subito sul campo lo status dell’internazionalità, si stia arricchendo ben oltre la mera dimensione quantitativa ed è questo sicuramente il caso del quasi esordio degli Helve, quintetto di Leeds che, con questo To Be Forgotten, affronta il primo cimento sulle lunghe distanze di un full length. Pur sapendo di poter provocare qualche sussulto di perplessità in chi, etimologia alla mano, si affrettasse a obiettare in punta di logica e grammatica che l’exordiri latino mal si concilia con l’utilizzo dell’avverbio “quasi” a precederlo, ci sentiamo di ribadire la scelta di un simile accostamento, perché, se è pur vero che i Nostri, discografia alla mano, hanno già all’attivo un titolo (l’EP Faint Hope), è altrettanto vero che il suo minutaggio limitato, gli otto anni trascorsi dalla pubblicazione e un parziale rinnovamento della line-up suggeriscono l’idea di una nuova partenza più che della prevedibile conferma di linee guida artistiche consolidate. Beninteso, non che in Faint Hope manchino spunti interessanti o ci si limiti scolasticamente al classico compitino (una traccia come “Obliterate” finisce per esempio per insinuarsi insidiosamente sottopelle col crescere degli ascolti), ma indubbiamente l’apertura alare sfoderata oggi consente alla band di puntare verso lidi decisamente più ambiziosi. Stilisticamente, tra i mille affluenti che contribuiscono ad ingrossare il grande fiume post-, possiamo collocare gli Helve in un’ipotetica terra di mezzo tra il bacino pentagrammatico dei Cult of Luna e quello degli Amenra, a metà strada, dunque, tra la visionarietà cinematografica di casa a Umeå e le tormentate allucinazioni del combo belga. Il risultato dell’incontro di queste due anime è un album articolato e che può pagare qualche dazio sul versante della fruibilità, soprattutto per eventuali orecchie che abbiano poca dimestichezza col genere, ma che guadagna indubbiamente in profondità ciò che sembra perdere in immediatezza, a patto ovviamente che gli venga concessa tutta l’attenzione del caso. Adottato un simile approccio, ecco allora che il primo apparente scoglio, la chilometricità di brani che non scendono mai sotto gli otto minuti, diventa al contrario un punto di forza del viaggio, garantendo un’esperienza emozionante, coinvolgente e con molte sorprese in grado di mantenere sempre alta la soglia dell’attenzione. Così, tra atmosfere in perenne oscillazione tra malinconia e spettralità, improvvise esplosioni di energia ed escursioni in territori su cui incombono architetture sinistramente imponenti, il quintetto trova tempo e modo di esaltare tutte le sue qualità, a cominciare dalla coppia di sei corde Andi/Joel, autentica macchina di nebbie e vapori ma anche di stilettate che squarciano le trame, passando per la sezione ritmica Przemek/Martin, che all’occorrenza solidifica il corpo dei brani con opportuni tocchi doom, per finire con la prova al microfono del vocalist Andy “JaY” Johnson, con il suo scream sempre acuminato ma capace anche di accompagnare i momenti meno tempestosi della narrazione. A chiarire con dovizia di particolari i tratti caratteristici della poetica degli Helve e la natura “anfibia” del viaggio, provvede subito l’opener “Dark Clouds”, letteralmente spaccata in due tra un incantevole, ipnotico ed etereo avvio che pesca a piene mani dall’arsenale ambient e post-rock e una seconda parte che drammatizza il quadro attivando immediatamente reminiscenze Amenra degli ultimi capitoli della saga Mass. Pesantezza e ritmi cadenzati si prendono la scena nella successiva “Guns Heal The Sick”, intercettando e giocando in controcanto con lo scream di un Johnson qui quasi titanico nel rendere tormentato il flusso narrativo, mentre “The Bones of Giants” riprende lo schema stop and go dell’opener interrompendo la tranquilla navigazione iniziale dai tratti descrittivo/paesaggistici e ripartendo con la sezione a più alto tasso doom del platter, con il cantato di Johnson che lancia lampi minacciosi impedendo all’oscurità di dominare incontrastata. Così opportunamente preparata, scocca l’ora della traccia-monster della compagnia, “Teeth”, venti minuti sicuramente impegnativi ma altrettanto intriganti e appaganti, che si aprono con dissonanti allettamenti sludge, proseguono imbarcando progressivamente accattivanti linee melodiche e regalano un finale da applausi impreziosito da nobilissimi ma mai troppo invasivi richiami ai Cult of Luna.
Labirinti intricati che conducono in inattese radure dove domina un senso di abbandono e contemplazione comunque mai davvero rassicurante, anfratti oscuri su cui incombono strutture imponenti che trasmettono un senso di inquietudine, coriandoli di malinconia crepuscolare ad aggiungere una nota di inattesa delicatezza, To Be Forgotten è un album che merita ben più di una citazione distratta nella enciclopedia metal di questo 2023. Al di là dei dubbi se considerarlo o meno un esordio, una cosa è certa, gli Helve hanno preso autorevolmente il largo nel grande oceano post-.
(Ripcord Records, 2023)
1. Dark Clouds
2. Guns Heal The Sick
3. The Bones of Giants
4. Teeth