“Oddio, ma questi non staranno davvero provando a metallizzare Bob Dylan o Neil Young, vero? …Mmmmmh, però, tutto sommato niente male”. Forziamo forse un po’ la mano, ma immaginiamo che per molti sia stato questo, il primo impatto con gli Huntsmen, band di Chicago emersa prepotentemente sulla scena nel 2018 con il debutto sulle lunghe distanze di un full-length dopo la pubblicazione di un paio di EP nel quadriennio precedente.
L’album in questione era l’ottimo American Scrap e raramente come in quell’occasione abbiamo assistito a una feconda corrispondenza tra arditi intenti e resa pentagrammatica, con un’intrigante pozione capace di centrifugare senza soluzione di continuità spunti folk/rock d’autore (con qualche tocco country a comporre quel quadro riassunto generalmente sotto il nome di Americana) e sporcature doom/stoner/sludge. Forti di un siffatto più che convincente esordio, i Nostri hanno affrontato con pari coraggio i sempre insidiosi tornanti della prova-sophomore, ma Mandala of Fear ha soddisfatto solo in parte le attese, lasciando una sensazione di un banchetto troppo pantagruelicamente apparecchiato, complice anche una durata chilometrica che ha finito per appesantire il viaggio. Il ritorno su rotte un po’ meno impegnative (e meno disomogenee) si è concretizzato due anni fa con l’EP The Dying Pines e si completa definitivamente con questo The Dry Land, che riannoda i fili qualitativi del debut aggiungendo oltretutto ulteriori sfumature ai colori della tavolozza. Rispetto ai lavori precedenti, infatti, assistiamo a una consistente iniezione di contributi in arrivo dai quadranti post-metal, che alla prova dei fatti si rivelano il fondale perfetto su cui proiettare divagazioni a più che ampio spettro. L’altro grande protagonista del platter è il prog, da intendersi non tanto come somma di canoni a cui aderire e da riproporre a tasso sia pur variabile di fedeltà, quanto piuttosto come approccio innanzitutto nel processo di costruzione delle tracce, innalzando strutture dalle forme sempre imprevedibili ed elaborate. Va da sé che, con simili premesse, il rischio sia quello di atterrare su una compiaciuta e magari ostentata cerebralità, ma va dato atto al sestetto dell’Illinois (passato a una line-up a cinque elementi subito dopo la registrazione dell’album complice l’uscita del chitarrista Kirill Orlov) di non eccedere mai in soluzioni oltremodo intricate, privilegiando sempre e comunque i contenuti emozionali e una fruibilità a portata di orecchio medio. Ecco allora da un lato la sacra triade potenza/oscurità/velocità, ma ecco anche un gusto melodico che dispensa a piene mani eleganza e raffinatezza, per un effetto complessivo che non di rado varca la soglia della cinematografia. Ad agevolare e portare a compimento l’ambizioso cimento provvede uno straordinario stato di forma creativo sfoderato da musicisti di primissimo ordine, a cominciare dagli intrecci e dai riff del terzetto di sei corde Kang/Cushman/Orlov, passando per una sezione ritmica impeccabile (con menzione speciale per il sontuoso lavoro alle pelli di Ray Knipe), per finire con un comparto vocale magistralmente presidiato da tutti i componenti della band, con larga prevalenza di passaggi in clean e qualche fugace apparizione di uno scream mai eccessivamente acuminato. Al capitolo “microfono” è bene altresì aggiungere un ulteriore paragrafo, dal momento che, rispetto al passato, risulta stavolta ben più decisivo e significativo il contributo di Aimee Bueno-Knipe, che si sta progressivamente ritagliando un ruolo sempre più importante proiettandosi oltre la dimensione voce angelica/controcanto per valorizzare le tutt’altro che trascurabili qualità da interprete pura di cui è abbondantemente dotata. Sei episodi per un minutaggio complessivo di poco superiore ai quaranta minuti, The Dry Land salta i preamboli con una doppietta in grado di catturare immediatamente l’attenzione e di inchiodare all’ascolto, a cominciare dall’opener “This, Our Gospel”, con un carico inizialmente liturgico/cerimoniale che a metà percorso scioglie la tensione spalancando le porte a un malinconico minimalismo fatto di onde appena increspate dai ricami vocali di lady Bueno-Knipe su trame e orditi di marca Rosetta e Russian Circles. Giusto il tempo di renderci conto del potenziale straniante della band ed ecco che una cascata di sabbia arroventata stoner e desert rock si sprigiona dai solchi della successiva “Cruelly Dawns”, che accumula intensità col passare dei minuti fino a lambire suggestioni Ne Obliviscaris, ovviamente al netto di un cantato che non raggiunge mai nemmeno lontanamente il parossismo di Marc Xenoyr Campbell. Il rientro in acque meno tempestose è affidato alle spire acustiche della semi-ballad “Lean Times”, a sua volta caratterizzata da una natura anfibia tra i richiami country dell’avvio e un finale dove risuonano echi degli ultimi Opeth e il ritmo rimane complessivamente controllato anche in “In Time, All Things”, nonostante qui gli Huntsmen osino azzardare (con gran costrutto, peraltro) finanche inattesi strappi black. A dispetto di una durata tutto sommato eccessivamente ridotta per cui forse vale la pena spendere qualche nota di rammarico, strappa applausi a scena aperta anche “Rain”, straordinario saggio della capacità della band di partire da un semplice, cadenzato rintocco per poi dilatare il brano e trascinarlo in molteplici direzioni, stavolta con un assolo di scuola hard rock divinamente incastonato nel cuore della traccia. Tocca a questo punto al gran finale e, con la magnifica “Herbsight”, i Nostri confermano di non saper sbagliare un colpo, mettendo in scena una sorta di percorso iniziatico in cui la compassata solennità doom viene progressivamente intaccata prima da scosse tribalistiche e infine da una tormentata chiusura dove una voce narrante in modalità trasmissione radio incontra lo scream e i voli per una volta vocalmente eterei di Bueno-Knipe, a distillare un’attitudine corale complessiva che regala un finale pirotecnico su cui cala opportunamente il sipario.
Un arcobaleno di generi, sensibilità e sfumature chiamate a convegno con dosaggi magicamente impeccabili e con una mano saldissima dietro le quinte a reggere le fila dell’ispirazione, un senso dell’equilibrio pari al coraggio di avventurarsi su sentieri non convenzionali e di abbeverarsi a fonti apparentemente poco compatibili tra loro, The Dry Land è un album coinvolgente che, in cambio di un’immersione assoluta nell’ascolto, restituisce trasporto, visioni e scampoli di poesia in musica. Un gran rientro davvero, stavolta è centro pieno senza se e senza ma, per gli Huntsmen.
(Prosthetic Records, 2024)
1. This, Our Gospel
2. Cruelly Dawns
3. Lean Times
4. In Time, All Things
5. Rain
6. The Herbsight