Come tante altre produzioni musicali provenienti dai Paesi Bassi anche i Grey Aura non fanno eccezione in quanto a originalità o voglia di sperimentare. Il loro black avanguardistico e prog, con inserti provenienti anche dal folk, dal jazz, dal flamenco o da altri svariati generi, è sicuramente un boccone goloso per tutti coloro che amano le audaci commistioni sonore. Ma perché parliamo di loro? Perché dietro il progetto IJdelheid si cela Ruben Wijlacker, cantante di suddetta band, qui alla sua seconda prova discografica (e primo vero e proprio full) dal titolo Unholy.
Abbiamo tra le mani otto canzoni folk piuttosto sghembe, che flirtano anche in questo caso con svariate sonorità (come si suol dire, il lupo perde il pelo ma non il vizio…). Di base un dark folk, con innesti di Americana e Denver Sound, Gothic, reminiscenze piuttosto marcate dello Sting solista, dei 1476 nella loro veste più esoterica e mistica, di certe cose dei DOLCH, dei Current 93 e dei Death in June, del Nick Cave meno oscuro, di jazz fumoso e di melodie gitane. Un coacervo di sensazioni, di elementi tra i più disparati, che vengono però sintetizzati dal buon Ruben in un “dream folk” che potrebbe tranquillamente essere la colonna sonora di quei sogni fatti nel dormiveglia, durante i quali accade di tutto, si attraversa un ventaglio di emozioni anche opposte, si vivono situazioni illogiche con una naturalezza che non ci appartiene in realtà. E anche da un punto di vista tematico si rimane ancorati all’ambito di tutto ciò che, razionalmente, cerchiamo di evitare di fare perché non ammesso dalla società, almeno apertamente. Parliamo di tutte quelle pulsioni che teniamo a freno, di quelle trasgressioni morali e non che ci hanno insegnato a sopprimere, del misticismo che, chi più chi meno, coinvolge il nostro agire, dell’occultismo quale “lato oscuro” che ci attrae ma che spesso cerchiamo di respingere.
Le atmosfere sono setose, satinate, oniriche e impalpabili, affidate ai riverberi delle chitarre e della voce sussurrata del Nostro. Spesso le sei corde escono dalle loro ombre per concedersi momenti più ritmati ai limiti della wave come nel caso di “Gathering”, un pezzo assolutamente debitore di Sting sia nella voce che nello stile pizzicato applicato alla chitarra, ma non è il solo brano di questo tipo. In effetti questo particolare approccio allo strumento è riscontrabile in molti dei pezzi di IJdelheid, assieme all’uso di riverberi e distorsioni liquide e nebbiose, molto shoegaze e dream pop: “Justine”, “The Onset of Grand Decay”, e “Afterlife” sono esempi in tal senso. Altre volte invece troviamo connotati più latineggianti (“Southern Masquerade”, con il suo crescendo melodico nel quale strumenti e voci si rincorrono in maniera vorticosa e spiraliforme), o più riflessivi e pacati (“Kiss the Prophets” e le già citate “Justine” e “Afterlife”): insomma, comunque lo si guardi Unholy è un disco multisfaccettato, complesso nelle strutture ma godibilissimo dall’inizio alla fine.
IJdelheid se ne è uscito dal nulla con un lavoro assolutamente degno di nota e interessante, un punto di vista diverso e personale sul mondo del dark folk più onirico e d’avanguardia, un album che al primo ascolto potrebbe lasciare interdetti (è successo proprio a chi scrive), ma che, sessione dopo sessione, è in grado di sprigionare tutta la sua potenza evocativa e il suo fascino sensuale.
(Onism Productions, 2022)
1. Sadism
2. Gathering
3. Justine
4. Southern Masquerade
5. Floating Crowns
6. The Onset Of Grand Decay
7. Kiss The Prophets
8. Afterlife