È ormai diventato il gioco più diffuso, e per quello che mi riguarda, anche il più stucchevole dell’anno. Parlo della gara, in vigore soprattutto tra i musicisti che si sentono “impegnati”, a chi riesce a insultare più pesantemente e più frequentemente i Maneskin. Sono proprio loro, i paladini che si ergono a difensori della morale e dell’estetica, a contribuire in modo ormai definitivo alla gogna che ha elevato il gruppo romano al ruolo di male assoluto contemporaneo.
C’è però una parte di mondo musicale che se ne fotte di chi siano e di che cosa dicano/facciano/pensino e di come vestano i Maneskin, e che preferisce essere concentrata su quelle che sono le vere problematiche attuali, soprattutto da un punto di vista sociale e politico. Mi riferisco a quelle realtà, che, sulla falsa riga dei loro predecessori, da cui hanno mutuato l’approccio intransigente, continuano a gettare benzina sul fuoco della rivolta, mai come oggi vicino allo spegnimento.
Sono i figli degli anni novanta, quelli che oggi prendono il testimone di noi cinquantenni cresciuti col meglio che la scena punk hardcore italiana abbia mai partorito. Furono per noi anni d’oro sotto tutti i punti di vista. La realtà musicale antagonista italiana, consolidatasi negli anni ottanta, esplose intorno a quel 1984, immaginato tanto da Orwell quanto da Jello Biafra, che con la sua compilazione “Welcome to 1984” allegata alla sua fanzine “Maximum Rock’n’roll”, anticipò i tempi.
Ricordo che a Spezia, al tempo, ne girava una copia, rigorosamente in cassetta di pessima qualità, originariamente reperita da un qualcuno che nessuno si premurò mai di cercare di indovinare chi fosse. Non era importante sapere chi l’avesse trovata, quanto avere la propria copia da ascoltare a casa. Alla fine eravamo adolescenti ribelli a tutti gli effetti, e mentre i nostri coetanei impazzivano per la new wave e la disco ci piaceva giocare agli alternativi.
Oggi, che tutto quello che i brani di allora avevano pronosticato, è regolarmente accaduto, a prendere le redini della protesta sono un nutrito gruppo di realtà italiane, che nonostante la distanza anagrafica, riescono nell’impresa di mantenere viva l’attenzione sugli argomenti di un tempo. Quello che mi piace pensare è che anche oggi ci sia l’intenzione di guardare alla musica e nello specifico alla realizzazione di un disco, come ad un atto “politico”. Una presa di posizione, una critica, quanto mai doverose, da parte di chi capisce che ha un mezzo a disposizione per poter amplificare la propria rabbia. Non è poi così lontana la mentalità che si rifaceva al “chaos non musica”. Non conta la tecnica, è solo masturbazione. Serve il cuore, e quello non lo impari suonando uno strumento a giornate intere. Ce l’hai o non ce l’hai. Non ci sono alternative.
La mia formazione musicale è da ricercare negli anni ottanta, in contesti di autogestione di spazi occupati. Inevitabile che abbia sin da subito guardato al binomio tra musica e politica come a un qualcosa di inscindibile. Favorito anche dall’avere a portata di mano una delle band punk hardcore più dirompenti d’Italia, i Fall Out. In quegli anni transitarono dal CSA Kronstadt le più interessanti realtà musicali antagoniste italiane, permettendomi di crescere sia da un punto di vista musicale che politico. Kina, Contropotere, Impact, Peggio Punx, CCM, Infezione, Indigesti e tanti altri che ora non ricordo.
Sono passati quarant’anni da quei giorni. Ma la scena italiana continua a esistere e a resistere. Come se non fosse passato che un giorno da allora. I volti sono cambiati, ma le idee sono le stesse. Un certo tipo di musica non può prescindere da uno spessore etico sociale e politico. Potrebbe essere un mio limite ma davvero non riesco a pensare che le due cose non siano intimamente legate. In modo inscindibile. Ci sono state, e ci saranno altre risposte in merito, soprattutto da parte di chi non la pensa allo stesso modo e non trova pertinente, o più semplicemente non gliene frega un cazzo di fare politica, ma per me pensare ad un diverso approccio resta impossibile.
Soprattutto oggi, sento la necessità di dovermi nutrire di una sostanza che, partendo dagli insegnamenti del passato guardi non più al domani come un tempo, ma alla quotidianità, fattasi molto più terrificante di quel futuro pronosticato quarant’anni fa. Sarebbe interessante un giorno, magari in un futuro non così lontano sentire che ne pensano oggi, quelli di ieri, di come si è evoluta la situazione, di quante e quali prospettive vedano. Al momento però ci accontentiamo di ascoltare le parole (e le grida) di tutti coloro che sono in prima linea, e che non hanno problemi a metterci la faccia, e a esporsi. Perché la differenza, alla fine, è proprio questa. Viene un momento in cui bisogna metterci la faccia, passare dalle parole ai fatti. E pubblicare un disco di rottura e portarlo in giro in tour è un atto politico a tutti gli effetti. Poi, ci saranno quelli che non lo capiscono e non lo capiranno ma non possiamo pensare che siano tutti in grado di guardare alle cose con la stessa lucidità. Il che non significa che la nostra visione sia quella da preferire, in virtù di una superiorità ideologica, tra l’altro tutta da dimostrare. Ma che si debba provare a guardare le cose da un diverso punto di vista, quello sì, lo consideriamo fondamentale. Soprattutto oggi dove non è più ammesso il confronto e ognuno si trincera nella propria safe zone, dove è ammessa solo la propria idea, e gli altri non sono invitati a partecipare, quella che i Fall Out nel 1988 descrivevano con un azzeccatissimo “Filo spinato senza fine per il controllo e la supremazia”.
“Per noi l’hardcore rimane visceralmente legato al punk, com’era negli anni ’80. Un grido sociale e politico. Le influenze musicali sono cambiate, ma alla fine non contano. Sono messaggio e attitudine che contraddistinguono questa forma di rumore. Per noi fare hardcore oggi non è solo inserirsi in una scena o fare parte di qualcosa, ma esprimere tutto ciò che ci ruggisce dentro. Oggi la cosa dovrebbe essere ancora più profonda, questa è la generazione della crisi e noi tentiamo di unirci alla sua voce.” (Loia)
“Ciò che ci ha portato qua è un sentore, un’intolleranza e un’indignazione davanti al rifiuto della società di solidarizzare con, invece che di sfruttare, chi è in fondo alla catena alimentare di questo sistema. Siamo arrivati soltanto con questo e con questo portiamo avanti il nostro grido di disperazione incapace e altrimenti muta. Siamo qui con il presenziare, suonare insieme, supportare e organizzare anche per i gruppi che non sono connessi, che non sono amici di amici o che non hanno già un vissuto blasonato. Forse non diventeremo mai la band o un collettivo di culto ma ci piace esserci per chi è ultimo, per chi non ha voce neanche negli spazi dove si crede di non averne già.” (Lacittàdolente)
“La musica è una forma d’arte e questo dovrebbe rimanere l’aspetto più importante. Tuttavia mentirei se dicessi che i Deriva non sono nati con un preciso intento politico. La critica sociale è presente in quasi tutti i testi. La musica è un’arte che può al contempo trasmettere dei messaggi importanti e lo può fare con una potenza da non sottovalutare. Quando musica e messaggio vanno dalla stessa parte per me si raggiunge il nirvana e questo oggi è ancora più importante perché, proprio per come sono messe le cose, non è mai tardi o fuori luogo cercare di smuovere qualche coscienza. Mi piace pensare al messaggio che i nostri testi possono trasmettere come “Denuncia Sociale” ed in questo senso si, nella nostra attitudine c’è una forte analogia con quella che era (ed è) la vecchia scuola Hardcore Italiana.” (Deriva)
“Credo che fare musica suonata e sudata in questo momento in Italia sia già un atto di resistenza, si tratta comunque di continuare a cercare qualcosa di diverso rispetto a quello che ci viene propinato pesantemente dai media, quindi ha suo significato profondo che rappresenta una scelta altra, una scelta indipendente e non necessariamente legata all’estetica musicale attuale. Credo che la storia del genere abbia il proprio fondamento in una visione politica ed è forse anche per questo che per me è sempre stato impossibile non dare un significato di critica e di rabbia a quello che scrivo. Mi pare impossibile non esprimere una visione politica nel momento in cui si ha un microfono davanti, per me è sempre stato così e credo lo sarà sempre. Insomma credo ci sia molto da dire ancora e forse il tempo di tacere non verrà mai.” (Haram)