La mia unica certezza è quella di non averne alcuna. Rileggendo questo settimo episodio de Il Canto del Cigno non riesco a trovare nessun’altra interpretazione alle mie parole. Continuo a cercare un segno che possa portarmi a rivedere il tutto da un altro punto di vista, ma non ci riesco. Torno all’inizio e ripeto all’infinito il mantra. Tutto mi appare così opinabile e problematico. Anche quello che fino a poco fa pensavo potesse essere indiscutibile. Alla fine, ne esco con la certezza che il dubbio sia e debba essere l’unica strada che sento di dover e poter percorrere.
Tutto nasce da un recente articolo che ho postato su IYE, con cui analizzo Italia Skins, il volume con cui Flavio Frezza ci racconta “da dentro” la scena skinhead italiana nel periodo che va dagli anni Ottanta al nuovo millennio. È stato leggendo le pagine stampate dalla Hellnation, dedicate a quello che possiamo considerare come il più osteggiato movimento sottoculturale italiano del secolo scorso, che mi sono posto tutta una serie di domande, che ancora oggi, mi lasciano quantomeno perplesso vista l’impossibilità di soddisfarle.
Detto che il testo è un’ottima testimonianza di come il movimento skin si sia organizzato sul territorio, e di come si sia autoimposto uno stop nel momento in cui non ha saputo/voluto fare quel salto di qualità che potesse portarlo da sottocultura as elevarsi a controcultura, quello che emerge in modo netto è da collocare nel binomio musica – estetica. È qui, nella struttura sintattica che si snoda attorno a questi due elementi fondanti, entrambi decisivi, ma con pesi specifici differenti a seconda degli intervenuti, che prendono vita i miei fantasmi.
Guardo alla sottocultura skinhead e non posso non fare un paragone con quello che stiamo mettendo in piedi noi con GOTR. Se a prima vista può sembrare un azzardo, guardandolo con più attenzione, il mio non è per nulla uno spunto che possiamo catalogare come bizzarro e assurdo. Al contrario. Anche tutti noi che scriviamo sulle pagine virtuali di GOTR, e con noi, tutti quelli che a noi si rivolgono per stare al passo con le novità discografiche e col resto dei nostri contenuti multimediali, possiamo essere visti come parte di un qualcosa che non è poi così distante da un abbozzo di sottocultura. Se guardiamo agli elementi fondanti del movimento skin possiamo senza dubbio sentirci allo stesso livello, legati a doppio filo sia alla musica che all’estetica.
È proprio da questa prima considerazione che mi piace partire, coinvolgendo voi lettori coi miei dubbi. Oggi, nel 2024, ha ancora un senso identificarsi, in virtù delle caratteristiche di cui sopra, come parte di un movimento più ampio?
Non credo che l’anagrafe possa essere considerata come una delle discriminanti in questo senso. Non è l’età che sposta gli equilibri da una parte o dall’altra. Penso e credo, invece, che il discorso sia da indirizzare verso una sorta di “sentire comune” che, grazie – o a causa – della facilità nel reperire la musica (leggasi internet e nuove tecnologie in genere) ci stia portando sempre di più verso quell’appiattimento sociale, verso quell’elusione dei rapporti umani reali, verso tutti quegli atteggiamenti che alienano l’aggregazione. Oggi, complice anche la scomparsa dei negozi di dischi nelle nostre città, un tempo unica o quasi fonte cui abbeverarsi, guardiamo alla musica come ad un qualcosa da consumare in solitaria. Fermo restando che, la bulimia musicale che la rete ci permette di soddisfare, saturando i nostri hard disk di album che non ascolteremo mai per intero, non aiuta certo a venire fuori da questo impasse. Siamo all’interno di un inarrestabile processo isolazionista. E la prova più evidente ce la forniscono gli oggetti che abbiamo quasi costantemente tra le mani.
Passiamo più tempo a testa chinata sullo smartphone che a guardare i nostri interlocutori nel viso. Dovendo oggi scommettere sulle nuove tecniche chirurgiche da implementare per il futuro non ho dubbi, andrei decisamente verso dei supporti intravertebrali che possano aiutarci a tenere collo e il busto in posizione eretta. Siamo condannati ad una postura ipercifotica. Ci sono già diversi studi in questo senso, ma non serve rivolgersi alla letteratura medica, basta guardarsi in giro. Non sarà tanto il dolore a livello delle vertebre cervicali a costringerci ad una chirurgia riparatrice, quanto la comparsa di sintomi neurologici per la compressione intervertebrale. Ma ne riparleremo più avanti, per ora siamo solo all’inizio.
Spostandoci invece su un aspetto a mio avviso secondario, cioè quello legato alla componente estetica, non ho idea se chi si rivolge a GOTR sia rappresentativo di una platea che considera determinante il dress code, mettendolo sullo stesso piano dell’ascolto. Un tempo, come ci ricorda anche Frezza nel suo libro, ci si vestiva proprio per evitare fraintendimenti su quelle che erano le preferenze musicali. Oggi è ancora così? C’è ancora quel sano gusto che sottintendeva una buona dose di provocazione nel vestire in un certo modo? Ma soprattutto c’è la voglia di prendere le distanze – anche estetiche – da un mondo che non ci piace e che ci vorrebbe omologati?
Credo che sarebbe auspicabile da un punto di vista strettamente socioaggregativo la consolidazione di un legame che possa fortificare i rapporti incidendo in modo decisivo sull’individualismo che non pare avere cedimenti nel suo processo di stratificazione sociale orientata verso l’annullamento. Sotto questo punto di vista, qualsivoglia alternativa sottoculturale ha solo da imparare dal movimento skinhead e dal suo carattere di compattezza e unicità all’interno di un panorama sociopolitico che guarda solamente al profitto come unico obiettivo, e che ha trasformato la musica in oggetto mercificabile.
Così come mi piacerebbe pensare che esista davvero un target di riferimento di ascoltatori/fruitori/appassionati che si rivolgono a noi di GOTR solo per il fatto di sentirsi parte di un qualcosa di omogeneo. Un qualcosa che non necessariamente deve coincidere con la ribellione obbligata, ma che si sostanzi anche solo in una presa di posizione che serva come collante per non cadere vittime dei ricatti del capitalismo musicale. Se sono decadute le ideologie di un tempo, quelle intorno a cui sono nate, si sono modellate, cresciute e morte tutte le sottoculture del secolo scorso, la colpa non può che essere anche nostra. Nostra e della nostra incapacità di tramandare un certo pensiero alternativo che possa guardare anche all’altro e non solo a noi stessi.
Di certo c’è solo, in chiusura, l’idea, forse nemmeno poi troppo malsana di riuscire a far capire che condivisione non significa postare sui social network la copertina di un disco. La condivisione è partecipazione e aggregazione, altrimenti non è.
P.S. Non l’abbiamo specificato, ma è cosa talmente ovvia che solo un ignorante potrebbe non capirla, ma è sempre bene ribadirlo, non si sa mai – quando si parla di skinhead ci si riferisce al movimento original, tutte le deviazioni idiote (naziskin, skin88, ecc..) che negli anni l’hanno sporcato sono escluse da qualunque tipo di riferimento o ragionamento, anche solo parziale.