:: PREMESSA ::
Recentemente mi è capitato di notare come l’interazione creatasi con la pubblicazione di alcune precedenti puntate de Il Canto del Cigno stesse prendendo la strada del confronto/scontro con alcuni lettori. Se c’è una cosa che ho sempre voluto evitare è lo scambio di idee sui social network. Ci sono cascato – mea culpa, mea maxima culpa – in passato, come credo la stragrande maggioranza di noi, ma oggi è quanto di più distante da me l’idea di creare un confronto aperto con gente che non conosco personalmente, e di cui quindi non posso interpretare pensieri, parole, opere e omissioni nel modo corretto, privo di filtri. Ne consegue che sia più che mai doveroso sottolineare alcuni cardini intorno a cui orientare da ora in poi il pensiero del cigno morente che mi porto dentro:
– a me non interessa che ci sia interazione;
– a me non interessa quello che pensate di ciò che viene scritto in questo spazio;
– a me non interessa condizionare il pensiero altrui;
– a me non interessa attaccare nessuno;
– a me non interessa quello che fanno gli altri;
– a me non interessa quello che pensano gli altri;
– a me non interessano gli altri.
Il Canto del Cigno è uno spazio in cui faccio confluire alcuni dei miei pensieri meno ossessivi. Uno spazio in cui non viene richiesta – in alcuna sua forma – l’altrui approvazione, o l’altrui critica. Non mi interessa. È uno spazio in cui mi rifletto e in cui rifletto, ma soprattutto è – grazie a GOTR – uno spazio totalmente libero. Avete qualcosa da dire? Apritevi uno spazio come questo e dite quello che pensate, in modo attivo e non conseguentemente al pensiero altrui. A me di quello che pensate delle mie idee non interessa minimamente. Ho già le persone con cui interfacciarmi, con cui discutere di quello che scrivo. È della loro opinione che tengo conto, non della vostra.
Per cui, per riassumere:
– star qui non è obbligatorio;
– se non ti piace vai via;
– io non vado dove non sto bene e non seguo ciò che non mi interessa;
– la vita è già abbastanza breve e difficoltosa e non ho tempo per chi non stimo.
Ma soprattutto:
– non mi piace andare a dare fastidio in giro, non mi diverte.
Chiudo raccontandovi uno dei miei incubi peggiori. Ho il terrore – ricorrente – di trovarmi chiuso in un ascensore insieme a un’altra persona, di cui non ho richiesto espressamente la presenza. Nel caso dovesse accadere spero mi colga un ictus nel giro di una decina di secondi; l’interazione online con sconosciuti mi fa lo stesso effetto.
Detto questo passiamo a questa nostra ottava puntata, dedicata al crowdfunding.
Sono da sempre contrario al crowdfunding. Soprattutto oggi che cercano di farcelo passare come “produzione dal basso”.
I termini sono importanti. Hanno un loro peso, e una loro indicazione. Non possono essere usati “ad minchiam” [cit.]. Qui si tratta di una raccolta fondi destinata alla realizzazione di un disco “a scatola chiusa”. Tutto il resto è noia, diceva un tipo negli anni Settanta. E di noia realmente si tratta (per lo meno per me) ogni volta che, ciclicamente, si ripropone l’argomento. Forse, sono io che non riesco ad essere abbastanza aperto mentalmente. Sono arrivato a questa conclusione, dopo aver escluso tutte le altre. Sarò io il problema, non lo escludo, anzi lo considero come possibilissimo, ma, davvero, non riesco a capire come si possa associare l’idea di “produzione dal basso” (cosa che tra l’altro ancora non ho ben capito che cosa significhi) con la cara, vecchia “colletta”. Perché alla fine di questo si tratta. Una raccolta fondi, che ai miei tempi, nel millennio scorso, si chiamava appunto “colletta”. In questo caso però le cose stanno ancora peggio, perché non si tratta più di dare due spiccioli fuori dalla curva a chi non ha i soldi per il biglietto, o a chi i soldi li ha ma con la colletta tira su quelli per le birrette. Ma di finanziare un qualcosa che non ha né forma né sostanza. Finanziamo un’idea, un qualcosa in divenire, e lo facciamo con una sorta di assegno in bianco in un certo senso.
Restando sui termini e sulla loro importanza, qui del “processo produttivo” non c’è traccia alcuna. Si tratta di un qualcosa – il processo – che metteranno in atto le band, una volta raggiunta la quota preventivamente indicata – leggasi richiesta. Per me il processo produttivo è completamente un’altra cosa: uno fa un disco, cerca un’etichetta che glielo stampi, in caso contrario se lo stampa da solo, e lo pubblica. È qui, in questo momento, e non prima, che entro in gioco io, ascoltatore, fruitore di musica. Sono io che decido se comprarlo o meno, spinto dall’entusiasmo, dall’ingenuità, dal passaparola, dalle recensioni o molto più semplicemente dopo averlo ascoltato, tutto o in parte negli spazi in cui è possibile farlo. Non concepisco, in linea di principio, e al netto di alcune eccezioni che però non cambiano il ragionamento, una strada che esuli dal gusto personale nel momento in cui ci si approccia all’acquisto della musica. Se un album mi piace, o mi intriga, lo compro. Altrimenti dirotto i miei averi altrove, verso un altro disco, o verso un piatto di ravioli cinesi. Sarò, come detto, antiquato, ma non ravviso forzature in questo “processo”. Comprarlo a scatola chiusa per poter permettere, con la mia quota, alla band di realizzarlo, è una follia a cui non mi sento di aderire. Tu realizzalo, e poi, se mi piacerà, lo prenderò più che volentieri. Ma dirò di più, ci sono dischi che mi sono talmente piaciuti che ho scelto di comprarli in duplice formato, in tempi separati, proprio per testimoniare la mia totale devozione, e il mio totale supporto. Questo è un qualcosa che viene dal basso, dal cuore, non la colletta.
Gira una quantità di album notevole, con un’offerta davvero spropositata. Con la conseguenza che non si può comprare tutto in maniera indiscriminata. Sarebbe troppo bello se così fosse. Sta di fatto che bisogna fare delle scelte, e io preferisco comprare quello che prima posso ascoltare, anche in minima parte. Non sposo un’idea in modo totalizzante, e spesso, a prezzi eccessivi, come possiamo vedere a fine articolo. Non se ne parla abbastanza, ma un altro dei grandi problemi – in questo caso pratici – legati al crowdfunding, è quello dei costi di adesione al progetto. Per invogliare la sovvenzione, e quindi raggiungere cifre assolutamente fuori mercato – chi come me stampa dischi sa perfettamente di cosa stiamo parlando – vengono infatti proposte delle versioni ultramegadeluxe dell’album, con la conseguenza che il disco in quanto tale, e cioè la musica in senso stretto, passa in secondo piano rispetto all’oggetto che si acquista. Possiamo anche raccontarci che Gesù Cristo è morto di freddo sulla croce, ma non possiamo negare che le cifre siano gonfiate a dismisura. Se davvero voglio aiutarti a fare un album, lo faccio perché credo e spero che tu faccia un album che, musicalmente, abbia un senso, non un feticcio in pochissime copie a centinaia di euro. Questo, chiaramente, nella remota ipotesi che uno – non il sottoscritto – aderisca al progetto. In chiusura, credo di poter riassumere il tutto con questa considerazione, tanto paradossalmente provocatoria quanto doverosa: la produzione dal basso presuppone – per quella che è la mia visione – la partecipazione dei produttori nei processi di costruzione (termine non elegante, ma necessario per rendere l’idea) del disco. In altre parole, se pago, divento produttore in tempo pressoché reale. E come tale mi sento di poter, anzi di dover avere voce in capitolo, avallando o meno le scelte sonore e visive dell’album. Altrimenti, che cazzo di produttore del belino sono?
50 euro per un CD
75 per un vinile
200 euro per un ascolto in anteprima
15 euro per un download digitale
Va bene tutto, ma…