Post- e alternative rock, frammenti post-punk/hardcore ed echi new wave, aperture malinconiche e un tocco di oscurità; agitare il tutto e servire su un piatto melodicamente apparecchiato… nel grande libro di ricette della gastronomia pentagrammatica d’autore non si può certo dire che gli Impure Wilhelmina si siano mai risparmiati in termini di coraggio nella scelta degli ingredienti da affiancare e amalgamare per solleticare i palati più esigenti in termini di sperimentazione e ricerca di novità, conquistandosi sul campo diversi titoli di merito a dispetto di una visibilità internazionale sempre molto al di sotto della qualità dispensata ormai in più di venticinque anni di carriera.
Anche volendo imputare ai primi lavori qualche oggettivo difetto figlio di una messa a fuoco non ancora puntuale di mezzi e prospettive, infatti, almeno a partire dall’ottimo Prayers and Arsons del 2008 il quartetto ginevrino ha saputo sfornare in serie lavori molto vicini alla soglia dell’impeccabilità, da Black Honey ad Antidote passando per quel Radiation che rimane il più che probabile vertice assoluto della loro discografia. Il tratto distintivo di siffatti cimenti è sempre stata la straordinaria capacità della band di aggirarsi tra i generi senza farsi imbrigliare da canoni fissi e immutabili, brillando contemporaneamente per il coraggio del percorso e per una fruibilità d’insieme che ha tenuto lontano pericolosi rischi di autoreferenzialità, sempre in agguato quando si punta su scelte artistiche non convenzionali. Pur con tutte le premesse del caso e consci che la prevedibilità non sarà mai un tratto distintivo degli svizzeri, però, confessiamo che il nuovo EP in arrivo da Ginevra rischia di alzare l’asticella della sorpresa a livelli decisamente impegnativi, a fronte di un annunciato piano di volo quantomeno (o, meglio, eufemisticamente…) articolato. Per la tracklist di questo Dead Decades, infatti, gli Impure Wilhelmina hanno puntato su tre cover e due inediti ed è soprattutto sulle prime che immaginiamo si concentrerà almeno inizialmente l’attenzione, considerato il “peso specifico” delle tracce scelte. A colpire immediatamente è l’inconciliabilità stilistica dei tre brani in questione, ma quello che sulla carta (e nelle mani sbagliate) può facilmente diventare un limite esiziale per le sorti di un lavoro, in questo caso si trasforma in un’occasione per certificare la straordinaria capacità dei Nostri di mettersi alla prova con i registri sonori più disparati, uscendone tutt’altro che con le ossa rotte. Si parte subito con un grande classico della tradizione francese degli chansonnier, “La Javanaise”, composto e interpretato nel 1963 da Serge Gainsbourg e Juliette Gréco e ripreso successivamente da legioni di vocalist d’Oltralpe (ma non solo, visto che è entrato finanche nei radar di Iggy Pop), al punto da divenire una sorta di secondo inno nazionale dopo la Marsigliese. Siamo evidentemente subito al cospetto di una sfida più che impegnativa, considerato che il modello rimanda a un’epoca segnata da un’accoppiata intimismo/minimalismo sulla carta discretamente distante dal gusto rock, ma i rossocrociati riescono nell’impresa di non smontare l’impianto originario e, contemporaneamente, di attualizzarlo, irrobustendo la trama con rinforzi intelligentemente misurati della sezione ritmica Dutruel/Togni e affidando alla sei corde di Diogo Almeida il compito di ricamare arabeschi melodicamente orientati. Oltre al resto, ovviamente, brilla la prova al microfono di Michael Schindl, del tutto a suo agio nei panni dell’interprete “puro” in grado di sfoderare per l’occasione un cantilenato accattivante dai colori quasi grunge. Giusto il tempo di riprendersi dalla sorpresa e sul tavolo si materializza un secondo e non meno spiazzante asso, che azzarda stavolta un assalto all’empireo del cielo prog rivisitando uno dei cavalli di battaglia dei King Crimson, “Fallen Angel”, contenuto in quel Red che nel 1974 chiuderà in forma di testamento il quinquennio pionieristicamente d’oro del combo capitanato da Robert Fripp. Anche in questo caso, la strada scelta per la rilettura dell’originale è quella di incrementare il tasso muscolare dell’insieme senza minare le fondamenta di un edificio così sontuosamente apparecchiato e, se è vero che i devoti più ortodossi dell’epopea del Re Cremisi potranno storcere il naso di fronte alla scomparsa di una sezione fiati che ha reso unico il modello, è altrettanto vero che gli Impure Wilhelmina riescono a impadronirsi dello spirito vitale della traccia e a inserirlo nelle proprie coordinate, al punto che eventuali viaggiatori (malauguratamente) sprovvisti di mappe musicali settantiane non faticherebbero a credere di ascoltare un inedito contemporaneo. Anche per il terzo cimento retrospettivo non si lesina sul coraggio, visto che la vetta da scalare è “Plainsong”, parte integrante di uno dei massicci più imponenti mai innalzati in casa The Cure, quel Disintegration giustamente annoverato tra le imprescindibili pietre miliari della discografia di Robert Smith e soci. Qui la difficoltà maggiore consiste nel confrontarsi con le spire malinconicamente sinuose di un brano che è relativamente “solare” per gli standard curiani ma che allo stesso tempo non rinuncia ai chiaroscuri figli di un volteggiare di ombre diafane e delicate sulla scena e, opportunamente, i ginevrini decidono di seguire quasi alla lettera il dettato dell’originale, mentre Schindl sfodera un’altra prestazione-monstre incamminandosi sulle orme voluttuosamente decadenti del cantato di sua maestà Robert Smith con esiti ragguardevoli. Chiuso il capitolo cover, scocca l’ora di due inediti composti all’epoca di Antidote ma non inseriti nella tracklist definitiva e bastano pochi solchi di “Nebulæ” per proiettarci nel cuore della poetica degli svizzeri, in un turbinio caleidoscopico di tensione e qualche spigolo (nota di merito particolare, qui, per i frammenti di scream sabbioso dispensati da Schindl) che finiscono però sempre per sublimarsi approdando a raffinati abbandoni melodici di classica marca alternative. Allo stesso modo, strappa applausi anche l’andatura cadenzata e a tratti quasi marziale della conclusiva “Ignoramus”, con annesso, rapido strappo quasi in territorio black che regala un ultimo, inatteso fuoco d’artificio.
Molto più di un banale divertissement per riempire spazio e tempo in attesa di prove più canoniche in termini di uniformità artistica e minutaggio, coraggioso al limite dell’audacia ma non per questo arrogantemente sfrontato nel rapporto con i grandi classici chiamati a convegno, Dead Decades è un album che merita ben più di un ascolto distratto e ancor meno fugaci concessioni di credito figlie di annoiate ricerche digitando “cover” nei motori di ricerca delle piattaforme social. Non si inventano per caso ventisette anni di carriera, dalla cucina degli Impure Wilhelmina escono ormai solo piatti hors catégorie.
(Season of Mist, 2023)
1. La Javanaise
2. Fallen Angel
3. Plainsong
4. Nebulæ
5. Ignoramus