Un panorama sempre più affollato, l’ombra della “moda” che incombe e, sullo sfondo, le sagome minacciose dei giganti del genere pronte a far scattare la trappola esiziale di confronti e paragoni da cui uscire inevitabilmente con le ossa rotte… Per molti detrattori, la fotografia della scena post-metal contemporanea rifletterebbe uno stato di salute complessivo non proprio edificante, ma, scomodando con le opportune modifiche la saggezza popolare distillata in pillole proverbiali, fosse anche vero che “il post-metal non può (più…) volare a causa della forma e del peso del proprio corpo, in rapporto alla superficie alare”, resta il fatto che “il post-metal non lo sa e perciò continua a volare”.
A certificare la vitalità del movimento provvedono ad esempio nuove band che siano in grado di imporsi immediatamente all’attenzione con decolli da applausi ed è questo sicuramente il caso dei francesi Inner Landscape, protagonisti con questo 3H33 di un esordio sontuosamente apparecchiato anche per i palati più esigenti e meno disposti a facili e sbrigativi entusiasmi. Il piano di volo concepito dal quartetto di Lione, come sommariamente esposto nel promo sheet, è oltremodo impegnativo, permettendosi di scomodare nomi quantomeno altisonanti del calibro di Isis, Sumac e Intronaut, ma la tavola imbandita in realtà è ancora più ricca, se pensiamo che la portata principale è probabilmente quella che riconduce ai divini sapori di casa Rosetta, nella fattispecie di quel clamoroso titolo che risponde al nome di The Galilean Satellites. Se è vero, infatti, che tra i solchi non mancano echi e riferimenti discretamente immediati ai lavori delle due creature di sua maestà Aaron Turner (con netta prevalenza, peraltro, della declinazione isisianamente liquida della materia post- rispetto alle onde drone soffocanti di marca Sumac) e alle nervature prog che sono tratto distintivo della poetica Intronaut, è altrettanto vero che bastano pochi minuti di ascolto per ritrovarsi a galleggiare in quella “musica per astronauti” con cui Michael Armine e compagni amavano all’epoca definire i propri orizzonti sonori, rifiutando una collocazione tout court nella scuola post-. Per chi (colpevolmente e con istantaneo invito a rimediare quanto prima…) si fosse perso le incantevoli traiettorie disegnate ormai quasi vent’anni fa da quell’immortale capolavoro, è bene ricordare che non stiamo parlando di un trionfo della componente space in senso stretto, ma piuttosto della capacità di proiettare i viandanti in dimensioni parallele dove la visionarietà si nutre di caleidoscopiche combinazioni di luci e colori. Ed è proprio questo il grande merito anche degli Inner Landscape, del tutto a proprio agio in un universo dove le immagini producono incanto ed estasi, più che inquietudine e marcando così più di una differenza rispetto all’approccio Cult of Luna, con le loro architetture monumentali sotto il cui peso si annida sempre il rischio di esiti tormentati o claustrofobici. Con simili premesse, non stupisce che i transalpini giochino carte importanti sul versante melodico, ma va detto subito che il perimetro dell’album è infinitamente più elaborato e articolato, imbarcando da un lato significativi spunti prog tali da rendere opportunamente intricate le strutture dei brani e dall’altro affidando al comparto vocale il compito di incidere sulle trame graffi e lacerazioni che abbassano forse il tasso di immediatezza dell’insieme, ma che contemporaneamente ne incrementano a dismisura la profondità. Ecco allora le incursioni in tempi dispari e con qualche escursione finanche in territori jazz del drummer Adrien Bernet, protagonista di una prova entusiasmante in un pullulare di soluzioni sorprendenti, ed ecco anche la non meno convincente resa al microfono del vocalist Julien Gachet, dotato di uno scream sabbiosamente abrasivo che solo in apparenza sconta qualche limite in termini di uniformità, ma che alla prova dei fatti si rivela un imprescindibile strumento aggiuntivo. Cinque tracce più un breve filler per una durata complessiva di poco superiore ai trenta minuti, 3H33 esplora concettualmente il tema della disgregazione familiare partendo dalle prime crepe nelle relazioni per approdare alla drammatica deflagrazione finale e l’opener “The Order of Things” chiarisce immediatamente che la prospettiva è quella di un viaggio a metà strada tra sogno e allucinazione, in un gioco di contrasti dispensati con grande senso dell’equilibrio. Che si tratti di modulare la componente muscolare, piazzare nel corpo dei brani strappi iniettati di rabbia e ferocia o di instillare gocce malinconiche placando momentaneamente le tempeste, il risultato non cambia, siamo sempre e comunque al cospetto di dosaggi impeccabili e di scelte di tempo magistrali, ancor più apprezzabili considerato che stiamo pur sempre maneggiando un’opera prima di una band esordiente. La ricetta (vincente) viene riproposta praticamente in ogni episodio senza mai anche solo rischiare di generare sazietà, ma, anzi, incrementando ad ogni stazione e fermata il senso di immersione e coinvolgimento (provare per credere il finale di “Collective Dissonance” con il suo magico intreccio di prog e alternative). Riusciti nell’impresa di alterare la percezione della realtà, i Nostri non mollano più la presa, tra paesaggi quasi rassicuranti (“Old Ghosts” è una sorta di affresco dai toni delicatamente pastello, a suggerire una pausa contemplativa) e momenti di grande densità in cui le atmosfere lambiscono il registro del solenne (“Unexpressive Fall” osa affacciarsi su viste doom, con le quattro corde di Thibaud Bétencourt in gran spolvero). È così che si giunge più che debitamente preparati all’ascesa finale ed è qui che ci attende la vetta, incarnata dalla conclusiva title-track con il suo carico di spunti cinematografici, culminanti in una prolungata sospensione del ritmo che assume i tratti di un altopiano sconfinato da cui godere dei bagliori dell’ultima esplosione in arrivo.
Energia e materia in affascinanti e sempre nuove combinazioni, immagini ed emozioni che si inseguono su un fondale dotato di una straordinaria profondità di campo, 3H33 è un album che salta i preamboli dell’esordio e si proietta direttamente nella fascia di eccellenza del post-metal a dimensione internazionale. Ricordando sempre in premessa che le band non sono jukebox e (fortunatamente) non devono rispondere alle aspettative di chi è comodamente assiso al di qua di cuffie e casse, se al recensore fosse concesso almeno un auspicio mi permetto di suggerire agli Inner Landscape di tornare a volare quanto prima, hanno ali che possono portarli lontano, lontanissimo.
(Klonosphere, 2024)
1. The Order of Things
2. Collective Dissonance
3. Old Ghosts
4. Unexpressive Fall
5. Wreckage
6. 3H33