Dirigenti, allenatori, giornalisti, tifosi o chiunque si sia accostato in qualsivoglia veste alla religione degli sport di squadra lo ripeterà fino allo sfinimento: la pura e semplice collezione di fuoriclasse non è di per sé garanzia della conquista di un titolo da sfoggiare in bacheca, a fine stagione. Per raggiungere l’agognato traguardo, diranno, servono anche altre qualità, figlie della disponibilità al sacrificio e, se necessario, alla messa in discussione di certezze maturate in altri sia pur vincenti contesti.
Con dinamiche del tutto simili, nel sottile gioco di equilibri di una band, la statura artistica per quanto ragguardevole dei singoli membri non può da sola garantire quell’alchimia che è requisito imprescindibile per lavori che aspirino, se non all’immortalità, quantomeno a non attraversare come banali meteore i sempre affollatissimi metal cieli. Ultimi in ordine di tempo ad accettare la sfida, i capitolini Inno si presentano ai nastri di partenza sfoderando una line up semplicemente clamorosa e di assoluto rilievo non solo per gli angusti confini tricolori, tenuto conto che intorno al nuovo moniker si sono riuniti a cenacolo componenti tuttora in servizio presso gloriose case madri o comunque transitati in progetti dal grande profilo. Così, dalle sei corde dell’ex Fleshgod Apocalypse Cristiano Trionfera alle quattro di Marco Mastrobuono (Hour of Penance), passando per le pelli affidate a Giuseppe Orlando (The Foreshadowing) e per il microfono appannaggio della clean vocalist dei purtroppo disciolti Riti Occulti, Elisabetta Marchetti, si delineano i contorni di un vero e proprio dream team alle prese con un lavoro ascrivibile alla categoria “debutti” solo sul fronte cronologico e non certo per eventuali primi cimenti degli artisti. Considerata la storia pentagrammatica della maggior parte dei protagonisti, peraltro, i primi solchi di questo The Rain Under smentiscono immediatamente previsioni che ipotizzino un lavoro ad alto contenuto death, consegnandoci invece un platter collocabile in un orizzonte prevalentemente gothic, al netto di contributi tutt’altro che secondari in arrivo da doom e alternative metal. Non meno sorprendentemente, oltretutto, la scelta del quartetto è indirizzata verso un gothic ad alto tasso melodico e ad assimilazione rapida, in una sorta di ritorno alle origini novantiane del genere prima che le contaminazioni symphonic da un lato e la tendenza alla drammatizzazione di scuola scandinava dall’altro ne mutassero in parte i tratti originari (volendo evocare qualche ascendenza diremmo allora molto, molto più The Gathering che Tristania o Draconian). Un capitolo a parte andrebbe scritto a proposito dei punti di contatto con i Lacuna Coil, perché, se è vero che in qualche passaggio gli Inno ripercorrono indubbiamente le rotte alternative solcate dal vascello capitanato da Cristina Scabbia, alla prova dei fatti (e dei ripetuti ascolti…) le somiglianze sono molto meno marcate del previsto e non tanto perché i Nostri abbiano scelto di rinunciare al gioco di contrappunti tra cantato femminile e growl/scream maschile, quanto per una oggettiva e significativa differenza di approccio, che a Milano privilegia l’enfasi e l’impatto rock mentre qui l’accento rimane costantemente focalizzato su tinte chiaroscurali anche nei momenti più muscolari (e forse non è un caso che il brano più lacunacoiliano del lotto, “The Hangman”, lasci una vaga sensazione di “fuori contesto” rispetto al resto della tracklist). La spinta decisiva in questo senso viene dal timbro vocale di Elisabetta Marchetti, caratterizzato da una delicata vena malinconica ideale per continui trapassi in una dimensione onirica, ma non vanno dimenticate le pillole depressive di marca Katatonia di cui è disseminato il viaggio (con l’eccellente “Pale Dead Sky” e le appena meno convincenti “Goliath” e “Misericordia” a rappresentare al meglio il concetto) e finanche qualche refolo prog che si affaccia timidamente ad arricchire la tavolozza (i finali dell’opener “Suffocate” e di “The Last Sun” sono, in questo, un esempio illuminante), anche se ci sentiamo di assegnare una citazione di merito speciale soprattutto per la perla più caleidoscopica del lotto, “Scorched”, che certifica la capacità della band di cimentarsi anche con strutture più articolate, dispensando contemporaneamente dosi massicce di eleganza e raffinatezza. Giudizio sospeso, invece, sulla conclusiva “High Hopes”, cover dell’immortale brano dei Pink Floyd che chiude The Division Bell e che gli Inno ripropongono con rigorosa fedeltà all’originale, al netto ovviamente del cantato al femminile: il pezzo “funziona”, ma, anche avendo scelto legittimamente di evitare di stravolgere il canovaccio gilmouriano, forse era lecito aspettarsi un colpo d’ala o una divagazione sul tema, qualcosa insomma in grado di lasciare un’impronta significativa su un modello per quanto nobile e da maneggiare con la dovuta accortezza. E qualcosa ci dice che, nella circostanza, il quartetto avrebbe dovuto dare maggior fondo alle scorte della propria ispirazione…
Un progetto coraggioso intrapreso da mani capaci e che non hanno mai bisogno di ricorrere al mestiere per occultare eventuali vuoti creativi, un viaggio iniziato in un territorio musicalmente affollatissimo dove la semplice sopravvivenza impone dotazioni ragguardevoli in termini di qualità e personalità, The Rain Under è un album che, senza far gridare al miracolo, si colloca nella fascia dei lavori in cui il bilancio tra luci ed ombre è indiscutibilmente e inequivocabilmente a favore delle prime. Appena iscritta al campionato gothic, la super-squadra Inno può già vantare un buon gioco e diversi punti in classifica, le premesse per un grande prosieguo di stagione ci sono tutte.
(2020, Time To Kill Records)
1. Suffocate
2. The Hangman
3. Pale Dead Sky
4. The Last Sun
5. Night Falls
6. To Go Astray
7. Goliath
8. Scorched
9. Misericordia
10. The Division Bell