Gli Intercourse sono un gruppo dal Connecticut, USA. Li ho conosciuti qualche annetto fa e rivisitando i primi loro lavori capisco bene perché li seguivo; sicuramente c’era una forte componente post-hardcore di stampo americano con tante idee storte. Nel loro ultimo lavoro Rule 36 però prende piede una lenta trasformazione che vede la band molto più impostata noise rock a tinte sludge che si appoggia molto su tempi lenti e dissonanze, ma che non tradisce le sue radici rimanendo catarticamente aggressiva.
Attraverso i testi le tracce ci narrano di una situazione di rancore e disperazione e a volte di un’euforia incosciente e disperata e allo stesso tempo troppo conscia della situazione. Un album che ci narra di posti senza spazi se non quelli indecenti, luridi e asettici delle sale d’operazione, istituti psichiatrici e, in un accostamento azzeccato, tutto ciò che riguarda la vita della persona che si dedica alla musica. Una persona che ti parla delle sia tragiche che banali realtà di un musicista senza i successi che ti rendano un nome gigante che fa tour e enormi festival e allo stesso tempo di una specie di “Surivor’s Guilt”, in italiano “sindrome del sopravvissuto”. Traspare una specie di incapacità di andare avanti e di trovarsi e trovare un nesso e un perché. “You wanna know what hell is? Sell 25 tickets I’ll tell ya” ci narra il cantante Tarek Emad Ahmed. Gli credo, avendolo vissuto in modi trasversali. Dal punto di vista tecnico possiamo dire che le linee vocali all’inizio lasciano perplessità perché sono “fuori tempo” o comunque seguono poco la chitarra o la batteria prediligendo lunghe metriche che sconfinano nella barra successiva. Dopo un po’ di ascolti e avendo digerito il disco però risultano estremamente efficaci a esprimere queste narrazioni post-moderne.
L’inospitabilità si definisce benissimo anche nella musica che è un mix acido di chitarre dissonanti o lunghi riff ripetitivi e cavernosi. Questo non significa che non ci sia spazio anche per pezzi più hardcore come in “No Country For Old Crow” o di ancora più cupezza come in “Pagliacci Was Ahead Of His Time”. Tracce che giocano, più che su tanti alti e bassi, di trasportarti lentamente nella spirale di disagio che come una patina ricopre tutto. La batteria è massiccia e inamovibile, non offre repentini cambi o stortezze ma granitica scandisce la sezione di chitarre che sono abbastanza orientate al riff un po’ sludge come in “Peter Woodcock’s Dick Beaters” e “Sorry I Missed Your Set” piuttosto che schitarrate nervose classiche del noise rock. Le chitarre risultano molto alte ma il basso è avanti e ottimamente calibrato per sostenerle, pensiamo a “Crop Circle Jerk”, e sono molto articolate nel trovare le atmosfere da contorno che ci risucchiano via dai riff cavernicoli delle altre tracce.
L’album mi convince molto. Se siete in vena di farvi del male, leggete i testi e sprofondate con me in questo abisso post-moderno senza neanche sapere che cosa sia un momento di felicità. Il tutto con formula Name your price su Bandcamp, una scelta di stile.
(Autoproduzione, 2021)
1. An Even Briefer History Of A Drowning Boy
2. Peter WoodCock’s Dick Beaters
3. Sorry I Missed Your Set
4. Dr. Catheter
5. Christine Chubbuck Sock Puppet Theatre
6. No Country For Old Crow
7. Sweet Dreams Sour Milk
8. Crop Circle Jerk
9. Pagliacci Was Ahead of His Time