“I Saturnus in mezzo, Draconian e Swallow the Sun sulle fasce et voilà, l’attacco della nostra squadra è pronto per sfidare qualsiasi avversario…”. Nei panni di un improbabile commissario tecnico chiamato ad allenare una nazionale doom in un non meno improbabile campionato metal mondiale, risponderei probabilmente così, alla domanda sulla formazione-tipo da schierare per esaltare le caratteristiche delle devozioni sabbathiane aggiornate a gusto e sonorità del Terzo millennio. Ecco allora al centro l’ortodossia cadenzata del combo di Thomas A.G. Jensen e, ai suoi fianchi, le divagazioni gothic e death delle divine creature di stanza rispettivamente a Säffle e Jyväskylä, a comporre un terzetto delle meraviglie a chiara ed evidente trazione scandinava.
Come in tutte le squadre che si rispettino, però, è opportuno poter contare su valide alternative in grado di sparigliare le carte a partita in corso, a maggior ragione se in qualche campionato all’apparenza minore si segnalano nomi capaci di meritarsi le luci della ribalta internazionale grazie a prove qualitativamente da applausi. In quest’ottica, l’area mediterranea si rivela molto più che una periferia distante dal cuore pentagrammatico del regno e, se è vero che il primo pensiero vola inevitabilmente alle Baleari degli Helevorn, anche in ambito tricolore si segnalano proposte dalle traiettorie artistiche ragguardevoli, tracciate da musicisti usciti da tempo dalla dimensione dell’apprendistato per approdare allo status di solidissima certezza. È questo sicuramente il caso di Alessandro Sforza, polistrumentista da anni tra le punte di diamante della scena capitolina grazie a due creature stilisticamente accostabili ma mai sovrapponibili, che in ogni epifania hanno saputo scrivere pagine significative nel libro mastro del doom e dei suoi dintorni. Se, da un lato, sotto le insegne Ars Onirica i due (splendidi) capitoli I: Cold e II: Lost hanno valorizzato le spinte death con qualche refolo black sullo sfondo, con il moniker Invernoir eravamo fermi al già più che convincente debutto del 2020, The Void and the Unbearable Loss, dove un gusto gothic mai ampolloso o pacchiano aveva avvicinato la resa all’immortale, tormentata lezione mydyingbridiana. A quattro anni di distanza, i Nostri decidono di ripartire ampliando ulteriormente il raggio d’azione e puntando stavolta direttamente sulla contemporanea declinazione della sacra triade doom/death/gothic con tutti i rischi del caso, dato che, per i vascelli che azzardino tragitti su siffatte rotte, sono inevitabili paragoni e confronti con galeoni dalla stazza planetariamente impressionate. Ma, lungi dal temere le incognite dell’impresa, Aimin’ For Oblivion si rivela un lavoro impeccabile sia sul versante formale che su quello del coinvolgimento emotivo, dimostrando fin dalle prime note un respiro internazionale che auspichiamo possa preludere a una più che meritata visibilità ben oltre gli angusti confini patri. Il primo titolo di indubbio merito in casa Invernoir è quello di saper maneggiare la materia con i giusti dosaggi tra le singole componenti, generando carburante per evitare di affondare nelle sabbie mobili di generi in cui molto è già stato detto (e soprattutto suonato) e il rischio copia sbiadita è sempre dietro l’angolo. Ecco allora da un lato i passaggi segnati da andature cadenzate e ritmi lenti e dall’altro i prevedibili strappi, a volte muscolarmente orientati e a volte con vista su esiti allucinati, anche se a reggere davvero le sorti del platter è un’innata eleganza di fondo che sconfina nel “voluttuosamente decadente”, allungando solide radici nella tradizione anglosassone di marca novantiana. Con simili premesse, non stupisce che il registro melodico sia quello più saldamente presidiato, ma attenzione a ipotizzare derive verso approdi potenzialmente ammorbiditi o addomesticati, perché il cuore pulsante dell’album batte sempre e comunque in territori dove oscurità e penombre giocano le loro carte stendendo veli di malinconia e inquietudine. A scombinare i piani, oltretutto, contribuisce la prova al microfono di Alessandro Sforza, semplicemente impeccabile nelle incursioni in scream e growl di chiara ascendenza Mikko Kotamäki ma oggettivamente un po’ spiazzante, al primo impatto, quando si avvia su crinali morbidamente declinati in un clean quasi cantilenato. Serve qualche ascolto, per entrare in sintonia con una simile scelta vocale (così come con i brevi inserti narrativi in italiano), ma alla fine non si può non apprezzare l’effetto-caleidoscopio e il tocco di imprevedibilità che si aggiunge all’insieme. Otto tracce dal minutaggio mediamente sostenuto per un viaggio complessivo di quasi 54 minuti, Aimin’ For Oblivion si avvia subito su prospettive swallowiane con l’opener “Shadow Slave”, che ci permettiamo di ipotizzare ospite tutt’altro che sgradita in una tracklist sulla scia di The Morning Never Came, ma già con la successiva “Doomed” si intuisce che le acuminate spine death sono solo una delle frecce all’arco della band (qui a brillare è lo stop and go a metà traccia, da cui si riemerge con uno strepitoso assolo classic heavy). Se potenza e tratti quasi liturgico/solenni sono l’asse portante di “Desperate Days”, il lento incedere di “Forgotten in Time” ci trasporta in una dimensione liquida dietro cui soffia un delicato afflato poetico, mentre le strutture tornano imponenti (ma mai davvero minacciose) in “Broken”, forse la cartina al tornasole più significativa per verificare il grado di assimilazione dell’”offerta vocale” dell’intero lavoro, prima di un grande assolo di scuola blues (qualcuno ha detto Gary Moore?). Se finora le portate sono state ampiamente in grado di soddisfare palati esigenti, l’asticella della qualità si alza ulteriormente con la coppia d’oro del platter, a cominciare dalla poliedrica “Few Minutes”, sospesa tra strofe dai riflessi lovecraftiani e un ritornello sorprendentemente etereo (con l’aggiunta di un finale acustico medievaleggiante), per passare alla magnifica “Unworthy”, che spalanca le finestre a un gothic d’autore dagli esiti quasi corali, con un cantato che si spinge fino alle soglie del diafano e l’ennesimo capolavoro di sei corde in chiusura. Al cospetto di due siffatti giganti, la conclusiva “Useless” finisce forse inevitabilmente in una sorta di cono d’ombra, riuscendo solo in parte a rivestire il ruolo di “saluto ai naviganti” probabilmente concepito dalla band, complice un doom malinconico che mostra un po’ la corda nonostante il tentativo di aprirsi a suggestioni space (ma, anche qui, come non apprezzare il cammeo slow hand su cui cala il sipario?).
Delicato e commovente ma anche potente e all’occorrenza spigoloso, attraversato da una corrente melodica che impedisce ai fili della trama di spezzarsi creando una sorta di unicum narrativo a tinte molto più crepuscolari che oscure, Aimin’ For Oblivion è un album che si candida al ruolo di stella di prima grandezza nel cielo doom/death/gothic di questo 2024. La latitudine di nascita è decisamente diversa, ma il dna degli Invernoir ha tutte le carte in regola per dimorare lassù, tra i Maestri del Grande Nord.
(Code666, 2024)
1. Shadow Slave
2. Doomed
3. Desperate Days
4. Forgotten in Time
5. Broken
6. Few Minutes
7. Unworthy
8. Useless