King Woman, un moniker dall’impatto forte ed immediato che fin dall’esordio ha suscitato parecchi entusiasmi fra critica e pubblico. Nato inizialmente come progetto solista, dalla mente della musicista/cantante americana Kristina Esfandiari (nata da padre iraniano e madre serba), con il tempo si è evoluto a band effettiva. Questo Celestial Blues è il secondo lavoro e segue di circa quattro anni il precedente Created in the Image of Suffering. A quanto pare i riscontri positivi sono all’ordine del giorno ed il doom, in parte “contaminato” dallo shoegaze (non così presente in realtà), finora osannato da tutti pare abbia una nuova stella nascente al pari di nomi come Chelsea Wolfe. Ma sarà davvero così?
Chi scrive cerca di non lasciarsi influenzare dai facili entusiasmi ed ha iniziato l’ascolto a mente fredda concentrandosi unicamente sulla nuova musica. Le nuove tracce, rispetto al monolitico disco di debutto, dimostrano fin da subito una cura maggiore negli arrangiamenti mantenendo sempre la cornice doom incanalandola però in qualcosa di più dinamico. Vengono infatti mantenute le chitarrone metalliche del passato con i consueti riff apocalittici come pure le ritmiche marziali di batteria e la voce di Kris si avventura anche in nuove soluzioni vocali. Si presume quindi che questo nuovo disco sia notevole e meriti un posto fra i migliori album dell’anno. Nulla di più sbagliato purtroppo. Bisogna raffreddare gli animi e guardare sempre in un’ottica distaccata. Andando nel dettaglio i problemi saltano fuori in poco tempo. La titletrack “Celestial blues” non sorprende così tanto con il suo mix di chitarra mortifera, gli arpeggi melodici e qualche intermezzo psichedelico, ma a far preoccupare è la voce della stessa leader. Il tono è troppo distaccato e non riesce ad amalgamarsi al meglio con la potenza sprigionata dagli strumenti. Altro punto a sfavore è la ripetitività delle soluzioni. Viene totalmente abusata l’alternanza fra esplosioni violente e le derive più placide (“Boghz”, “Morning Star”) con le solite melodie minimali che si intrecciano con deflagrazioni elettriche e ritmiche impetuose che ricordano anche un certo doom/stoner nerissimo. Anche un interessante episodio come “Entwined” crolla per i motivi appena citati nonostante le atmosfere notturno/intime e la potente cavalcata finale per non parlare della stanca “Ruse” che non riesce a lasciare un segno concreto sull’ascoltatore. Un altro episodio sfortunato è “Golgotha” che avrebbe un’interessante “linea gotica” ma non riesce ad ingranare perdendo colpi nel giro di poco. Quando si cerca di aumentare la dose distruttiva i risultati sono alquanto discutibili, come la violenta “Coil” con il suo bel riff chitarristico sporco ma pieno di groove e la cruda “Psychic Wound” in cui è nuovamente la voce ad avere un volto negativo. Le urla acido/rabbiose di Kris non sono convincenti ed anzi risultano quasi fastidiose, come non fossero nelle corde di chi le utilizza. Non necessariamente manca l’intonazione, ma in ambito estremo quei vocalizzi non funzionano, a differenza di quando viene preferito un impatto più emozionale come nella riuscita “Paradise Lost”, dove convergono sfumature acustiche ed una voce soffusa che finalmente riesce a dire qualcosa. Come detto in precedenza, c’è un passo avanti e dei palpabili miglioramenti ma la strada è ancora lunga per riuscire davvero a brillare nonostante delle buone idee.
Un secondo disco con qualche alto ma ancora troppi bassi che, si spera, permetta ai King Woman di capire dove sbagliano e dimostrare di non essere un mero fenomeno commerciale sulla falsariga delle innumerevoli band con voce femminile.
(Relapse Records, 2021)
1. Celestial Blues
2. Morning Star
3. Boghz
4. Golgotha
5. Coil
6. Entwined
7. Psychic Wound
8. Ruse
9. Paradise Lost