Dal rifiuto della forma canzone al concetto di suite pentagrammatica, dalla ricerca ossessiva dei cambi di ritmo agli arrangiamenti meticolosamente curati, dalla passione per i virtuosismi a un apparente distacco emotivo che sconfina nella freddezza, il tutto condito da autocompiacimento e autoreferenzialità… Sull’universo prog, nel corso degli anni, è stato detto e scritto di tutto, spesso con intenzioni tutt’altro che benevole nei confronti di un genere che, dopo l’epoca d’oro settantiana, ha attraversato le decadi rock più come ospite che come mattatore, trasferendo a conti fatti soprattutto nel metal il proprio carico di potenzialità e prospettive (sia pure, anche in questo caso, con la solita, inevitabile litania di flames e dibattiti, a cominciare da un grande classico come la “temperatura” degli assoli di John Petrucci). In un siffatto profluvio di parole in forma di dotte disquisizioni filosofiche, il rischio è quello di perdere di vista una realtà dove dimorano e si aggirano moniker che da anni dispensano lavori qualitativamente di tutto rispetto, figli di una grande passione e di un’ispirazione senza cali di tensione.
È questo sicuramente il caso dei capitolini Kingcrow, giunti ormai alle soglie del trentennale di una carriera che li ha visti di rado sotto i riflettori della scena tricolore ma fortunatamente capaci di ritagliarsi un discreto seguito oltre i patri confini probabilmente in ossequio al proverbiale “nemo propheta in patria”. Partito da un approccio tutto sommato canonico alla materia prog, il quintetto romano ha affinato negli anni forme e linguaggio e, almeno a partire dall’ottimo Eidos, nel 2015, ha alzato a dismisura l’asticella della personalità rendendo sempre più difficile (e riduttivo) qualsivoglia tentativo di rigida catalogazione nei confini di un genere. Al netto di eventuali e personali considerazioni di merito artistico, il confronto tra un brano del 2003 come “Never Say Die” e l’opener di Eidos, “The Moth”, chiarisce immediatamente il percorso di maturazione di una band che non si è mai adagiata su comodi cliché ma, al contrario, ha sempre preferito i rischi della sperimentazione al comodo brucare al riparo di recinti sicuri. Ecco allora che, nel 2018, con The Persistence, i Nostri hanno saputo erigere il monumento ideale per smentire tutti i luoghi comuni sul prog, regalando un gioiellino senza ombra di cerebralità e dalla fruibilità immediata, a dispetto di chi bolla a priori il genere come ostaggio di strutture oltremodo intricate e soluzioni ritmiche complesse. Mentre intorno a quell’album ci si può affannare a individuare possibili pietre di paragone e nobili ascendenze (Porcupine Tree o ultimi Opeth? O forse Haken? E perché no Leprous?), è bene tenere presente che il lavoro di ricerca dei Kingcrow esclude un approdo in qualche modo definitivo e la conferma arriva puntuale con questo Hopium, ennesima prova da centro pieno in un bersaglio in perenne movimento. Non che il quintetto abbia apparecchiato chissà quale stravolgimento stilistico o anche solo un mutamento di rotta significativo, ma non fatichiamo a immaginare più di qualche sopracciglio alzato in posa sussiegosamente guardinga nel cogliere tra i solchi un ulteriore incremento del tasso di potabilità dell’insieme, a cui si aggiungono consistenti e non meno spiazzanti riflessi trip-hop (ebbene sì, se proprio dovessimo indicare la vera sorpresa del platter, punteremmo senz’altro i nostri centesimi sulla coppia d’oro di Bristol Massive Attack/Portishead, come musa ispiratrice sullo sfondo di diversi passaggi e soluzioni). Detto in premessa che, anche stavolta, l’immediatezza delle tracce non è mai sinonimo di ruffianeria catchy, continua a stupire la straordinaria capacità della band di gestire un listening che sarà anche apparentemente easy ma che in realtà sottintende un lavoro di cesello finissimo, oltre a riservare nuovi dettagli e scoperte ad ogni ascolto. Ecco allora, da un lato, una dimensione “corale” in cui Diego Marchesi esalta le sue doti vocali da interprete puro e, dall’altro, l’incremento del contributo delle tastiere e, in generale, dell’elettronica, qui impeccabilmente gestita e declinata dalle sapienti mani di Diego Cafolla. In tutto questo, è un ulteriore valore aggiunto la capacità di esprimersi al meglio anche su minutaggi più che contenuti per gli standard del genere, quasi a voler smentire l’inevitabilità dell’equazione prog=”Thick As A Brick”. Ecco allora che la scelta apparentemente leggera e quasi spensierata di un’opener come “Kintsugi” si trasforma in un’arma vincente grazie a un ritornello di facile ma non banale presa (forse i più attempati ricorderanno l’album di esordio degli Asia, quasi mezzo secolo fa, ormai…), così come, passato l’iniziale smarrimento, le linee electro-rock di “Glitch” finiscono per travolgere eventuali perplessità e rendono più che accettabile l’innegabile retrogusto pop. È ancora un’elettronica nervosamente scattante la grande protagonista della prima metà di “Parallel Lines”, ma, passato il giro di boa, la traccia vira verso lidi cadenzati in cui brillano le pelli di Thundra Cafolla (e nota di merito per il coretto jethrotulliano in chiusura). Detto delle spire malinconiche della semi-ballad “New Moon Harvest”, impreziosita da un grande assolo di respiro blues, la coralità dei Kingrow celebra il suo trionfo nell’ottima “Losing Game”, che trasforma un avvio acustico in un travolgente finale dove è praticamente impossibile non lasciarsi andare a quel “Now the curtain has fallen” ripetuto a tamburo battente. È di nuovo apparentemente tempo di ritmi compassati e atmosfere dilatate con “White Rabbit’s Hole” (attenzione però, perché la seconda parte trasuda follia creativa e più di qualche tempo dispari), ma soprattutto con la perla notturna e malinconica del lotto, “Night Drive”, che pure incorpora nel finale lo strappo più muscolarmente orientato del viaggio. Altro giro, altra manciata di sorprese grazie a “Vicious Circle” che, in poco più di quattro minuti, si permette di scomodare, peraltro con la dovuta discrezione, la lezione dei maestri Tool senza bruciarsi le ali e gran chiusura affidata alla title-track, perfetto saluto ai naviganti con le tastiere ancora in primo piano e un comparto vocale presidiatissimo fino alle ultime note dove, in definitiva, si annidano gli unici, veri, sprazzi di ortodossia prog.
Un ritorno trionfale su scene che ormai fanno parte del loro codice genetico, una straordinaria capacità di rinnovarsi allargando ad ogni prova l’orizzonte creativo, la dimostrazione che semplicità e profondità possono vivere in dimensioni fecondamente comunicanti, i Kingcrow piazzano l’ennesima scommessa vincente nel sempre complicato circuito prog. E non ci stupiremmo affatto di ritrovare Hopium tra i primi estratti anche in sede di consuntivi di fine anno, tra tutte le ruote rock/metal.
(Season of Mist, 2024)
1. Kintsugi
2. Glitch
3. Parallel Lines
4. New Moon Harvest
5. Losing Game
6. White Rabbit’s Hole
7. Night Drive
8. Vicious Circle
9. Hopium