Il perturbante, Das Unheimliche, viene definito da Sigmund Freud come “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” e quindi quando qualcosa viene avvertita allo stesso tempo come familiare ed estranea. Questo straniamento porta a una confusa e quindi ancor più temibile sensazione di angoscia. I danesi Kollapse, che arrivano con questo AR alla loro terza uscita, sembrano partire proprio da questo presupposto per “esplorare ciò che non è desiderato, la sgradevolezza e tutto quello che non vorremmo mai incontrare in vita” e lo fanno però appunto prendendo ispirazione da esperienze personali. Se Angst (2017) era un album di hardcore evoluto, al limite del post-hardcore più canonico, e SULT (2021) il suo sviluppo che soprattutto a livello ritmico muoveva da certe impostazioni care ai primi Tool e con delle interessantissime derive melodiche, AR riesce a triangolare queste suggestioni e viene fuori come un quadratissimo, spietato e roccioso esemplare di post-hardcore (per fortuna non troppo cerebrale, anzi) imbastardito con del robusto noise-rock e con lo sludge. La nota introduttiva si conclude con un cenno a quanto siano effettivamente perturbanti le copertine del terzetto danese.
AR (cicatrice, in danese) si compone di 7 pezzi i cui titoli alludono al ciclo vitale dell’insetto. Volendo trovare una raffigurazione a questo disco viene da pensare alle ferite che tutti abbiamo e che i Kollapse sembrano quasi trovare gusto e piacere nel riaprire per poi torturarci versando su quelle stesse ferite manciate di insetti che zampetteranno sulla nostra pelle. L’incertezza intellettuale tra l’animato e l’inanimato sta alla base del perturbante e cosa, quindi, meglio di uno o più insetti rappresenta proprio questa incertezza? Gli urli le distorsioni e i feedback della title-track/intro ci mostrano subito a cosa andremo incontro, poco meno di un minuto di rumori che aprono la strada al primo vero pezzo, ossia “Autofagia” che ci colpisce diretti in faccia con il suo drumming avvolgente. Spicca immediatamente la qualità dei suoni, sì sporchi ma netti, senza slabbrature. Capiamo quindi che i Kollapse prendono i presupposti ritmici e marziali di progetti come KEN Mode, Unsane, i meno noti Great Falls (aggiungo i forse dimenticati troppo in fretta Helmet) e li arricchiscono con passaggi più riconducibili allo sludge (ma anche in questo caso uno sludge di mota e di morca eppure contenuto in cornici ben marcate). “DØD” è la canzone successiva e conferma l’impronta musicale sulla quale i Nostri riescono a far dialogare in modo molto interessante, e a forza di controcanti, basso e chitarra con sempre un’ottima batteria di bordone. Proprio Peter Drastrup, il batterista, necessita di una particolare menzione di merito. Di sicuro il suo modo di suonare è esaltato da un lavoro in studio di pregiatissima qualità (suoni quasi ovattati, molto compressi ma che rendono alla grande nello sferragliare generale) ma la sua prestazione è davvero di gran livello. Con questo nulla si toglie alle intuizioni di Hansen e Lund a corde e voci ma quel qualcosa in più che si sente è forse proprio frutto del lavoro dietro alle pelli – chi scrive ci sente qualcosa di Danny Carey dei già citati Tool e quel mostro che risponde al nome di Steve Shelton che ricordiamo in quella stranissima e stramba creatura che erano i Confessor da Raleigh, oltre a una certa tecnica che va a destrutturare ritmi latinoamericani e caraibici della quale Stewart Copeland è maestro assoluto. “Form” è il pezzo più lento dei sette di AR e, grazie ad alcuni accordi in clean (gustosissimi comunque gli schiocchi e i fruscii che sono stati giustamente lasciati nel mix finale) e all’apertura della seconda metà, mostra che i Nostri avrebbero anche delle carte da giocare se decidessero di investire di più nella melodia. “Dekomposition”, la quinta traccia, esula per la lunghezza tanto che dura più di 8 minuti a fronte dei quattro/sei delle altre canzoni. Ancora sembra di sentire le zampette degli insetti sulla pelle e questo va segnalato per come i Kollapse riescono realmente a trasmettere delle sensazioni ben definite, stavolta lo fanno anche alternando dei momenti di vuoto/pieno e suono/silenzio. La penultima traccia si intitola “Kokon” ed è quella più vicina a qualcosa che può essere definito sludge anche se nelle mani dei Nostri guadagna in originalità e interesse grazie a riff molto quadrati e precisi e a una furia soprattutto nelle voci che ci riportano alla memoria certi Converge. A conclusione del pezzo compaiono alcune note di pianoforte che ci portano verso quella che è l’ultima canzone del disco, ossia “Transformation”, con il suo lento e maligno arpeggio iniziale che ci illude per quasi tre minuti al termine dei quali troviamo nuovamente il marziale e sghembo incedere con cui i Kollapse ci hanno accompagnato per tutto l’album. Ma, appunto, la canzone si trasforma in una pesante larva al limite del doom e che si insinua ancor di più sotto pelle.
Signore, Signori, questo è un gran disco. Punto. Chi scrive non può non sentire la mancanza di un episodio più riflessivo e quasi melodico qual era “Drift”, la splendida canzone che apriva SULT. Ma bisogna essere obiettivi e onesti e va riconosciuto l’assoluto valore di questa perla, vuoi marcia, vuoi purulenta, ma bellissima che risponde al nome di AR. Andando avanti per la loro strada i Kollapse raggiungono il vertice della loro carriera musicale offrendoci un album suonato e prodotto bene e, santoddio, originale. Loro stessi non negano il rispetto e la stima per i grandi nomi che sono stati menzionati alcune righe sopra ma ugualmente la loro miscela di suoni, rumori, intuizioni, idee (ossessioni) riesce realmente a ritagliarsi un’importante spazio nel panorama musicale estremo. Godetevi l’ascolto di questo gran bel disco e non preoccupatevi se sentirete strisciare qualcosa dietro al collo, non è reale, è solo suggestione. O forse no.
(Fysisk Format, Vinyltroll Records, Head Records, 2024)
1. Ar
2. Autofagia
3. Død
4. Form
5. Dekomposition
6. Kokon
7. Transformation