La quarta edizione del Krakatoa Fest, annunciata come quella finale, è stato uno degli eventi musicali più importanti e piacevoli dell’anno. Una kermesse, una vetrina impressionante che ha voluto raccontare come vanno, in fatto di musica, le cose qui da noi, con una proposta monstre di 55 band divise in tre palchi – mentre in un palchetto esterno si esagera con un delirante Discomfort Dispatch curato da Tonto, che ha visto alternarsi molti dei musicisti delle band presenti in ore ed ore di improvvisazioni. Per noi di Grind On The Road è pure un modo per fare una rimpatriata di redazione e il sabato timbriamo sette cartellini. Purtroppo manchiamo invece al giovedì, perdendoci una scaletta altrettanto bella ma più internazionale. L’apertura porte del sabato è grosso modo alle 17 e sin dall’inizio è un tripudio di sorrisi, abbracci ed amicizia. Ci aspetta però una maratona pazzesca, e noi, come palline di un flipper, verremo sbalzati da uno stage all’altro con continui pit-stop alle postazioni bar ad innaffiare la gola, ci concentreremo su quello che ci premeva maggiormente. Di seguito il nostro tentativo, per forza di cose non esaustivo, di raccontare ciò che è successo in quel del TPO di Bologna, in un report scritto da un tentacolare mostro a dieci mani rispondente al nome di Flavio Di Bella, Francesco Paladino, Santo Premoli, Diego Ruggeri e Federica Sapuppo. Foto di Emma Di Taranto.
Krakatoa Fest IIII
TPO, Bologna
5-6/10/2019
Sabato 6 Ottobre
Il Krakatoa entra nel vivo con i RIAH, specie per noi di GOTR. Nel Mirror Stage le persone sono stipate come acciughe, noi guadagniamo la porta e ci godiamo lo show. I Riah giocano in casa, e vogliono impressionare. Lo fanno. Si presentano con una formazione a tre chitarre, con cui alzano un muro di suono e danzano, impeccabilmente, sulle delicate note del post-rock strumentale del loro Autumnalia. Performance intensa, sentitissima, precisa, fatta di crescendo e picchi emotivi. Il suono rende bene l’esibizione e convince, tanto che qualcuno sceglie di goderselo appoggiato sulla porta esterna come colonna sonora iniziale che da il via alle danze del Krakatoa.
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Riah
È poi il turno degli WOWS, che salgono sul palco presentando nuovo materiale dal loro prossimo disco Ver Sacrum. Il sestetto parte in punta di piedi con tappeti ambient e arpeggi per poi esplodere in un caos controllato fatto di stratificazioni strumentali di altissimo livello. Le parti cadenzate, vero trademark del gruppo, si fanno se possibile ancora più ossessive e stranianti. La performance del vocalist Paolo riesce a sprigionare rabbia e intimismo con grande trasporto. Vero valore aggiunto della proposta è un’inedita furia ritmica che porta con devastanti blast beat verso nuovi e interessanti lidi che virano verso il post-metal. Tre brani sono decisamente pochi, e siamo impazienti di ascoltare il disco in tutta la sua durata, ma al momento la sensazione è di trovarsi di fronte ad una band matura e conscia dei propri mezzi.
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Wows
Subito dopo gli Wows l’atmosfera inizia ad infiammarsi sempre più. Adesso è il turno dei CAYMAN THE ANIMAL e dei Dufresne che suonano in contemporanea, gli uni nel Mirror Stage, gli altri nell’Uppercut, mentre nel main fervono i preparativi per un’escalation clamorosa. Il Mirror è stipatissimo, e regala la familiarità di un house concert – sarà una costante per tutte le esibizioni. Ci si piazza in prima fila, carichissimi e già inspiegabilmente sbronzi, e si balla tutto il tempo. Diego è a suo completissimo agio, dall’attitudine contagiosa e ci si diverte un mondo, tutti col sorriso sul volto, tutti a cantare. Facile quando hai scritto brani stupendi e li suoni divertendoti. Si esce sudati e più che soddisfatti.
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Cayman The Animal
Non ci siamo ancora ripresi dalla notizia dell’allontanamento di Chris Spencer dagli Unsane, per cui vedere Dave Curran imbracciare un basso ci rende particolarmente felici. Per chi conosce il progetto Pigs sa su che direttive sonore ci troviamo: i BARATRO hanno una marcissima base sludge/noise con strumenti a corda che paiono trattori. La voce tirata di Dave ne amplifica l’assalto sonoro e certi rimandi agli Unsane nelle parti più bluesy non sono per niente male. Il live è stato viscerale e sentito. Speriamo di poter sentire di più su questa formazione il prima possibile.
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Baratro
Dopo una breve capatina nei pressi dell’Uppercut Stage per assistere al delirio schizofrenico del teatro-canzone di MUSICA PER BAMBINI, ci rechiamo nel palco principale per i LLEROY, per i quali, come dicevamo, gli animi avevano già avuto modo di riscaldarsi. Il trio gioca in casa, è accolto da un tripudio e ripaga l’affetto con uno show potente – davvero, potentissimo – ed intenso. Un’assurda scarica di noisecore ipnotizza le prime file mentre subito dietro, dagli spintoni che arrivano, si direbbe che stanno iniziando le prime danze. Esibizione memorabile e fioccano applausi a scena aperta.
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Lleroy
La presenza di più palchi porta inevitabilmente alla sovrapposizione fra i set, ed è con un po’ di rammarico che ci accorgiamo che quelli di SEDNA e HOBOS coincidono perfettamente. Li abbiamo visti entrambi in azione allo scorso Frantic Fest ed eravamo curiosissimi di poterli apprezzare ancora una volta e in un contesto diverso. Così optiamo per la par condicio, vedendo la prima parte dello show degli Hobos e la seconda di quello dei Sedna. Partiamo dall’Uppercut Stage, che sembra più un illegalissimo ring di CZW se a calpestarlo ci sono i barboni veneti. La band è carica a pallettoni e non lesina le solite legnate punk metal con una scaletta che riprende dall’ottimo Nell’era dell’apparenza, per uno show molto simile a quello visto a Francavilla al Mare, con la differenza di un cambio dietro le pelli – Saverio degli Slander a sostituire egregiamente l’ottimo batterista originale. Alla seconda prova la nostra opinione non cambia, anzi ci rendiamo conto di quanto gli Hobos siano degli assoluti top player della scena italiana che, siamo certi, faranno cose grandissime.
In tutto questo soqquadro generale ci ricordiamo, però, di essere fortemente devoti alla musica del male e ci fiondiamo, un po’ a malincuore, in uno stipato Mirror Stage perché stanno suonando i Sedna. Nonostante si respiri a stento siamo felici di rivederli in azione al chiuso, e avvolti da un buio quasi totale che eleva il post-black atmosferico dei quattro a un nuovo livello. Anche loro, come i colleghi di scuderia Spikerot Records sopra nominati, maneggiano la propria musica con altissima consapevolezza: è proprio così che il genere dovrebbe essere concepito e suonato, con ipnotici blast beat alternati a baratri oscuri, vocals disperatissime e musicisti che ci stanno davvero dentro. Performance grandiosa, anche assaporata a metà.
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Sedna
Uscire integri da un live degli Hobos è di per sé una bella fortuna, specie se a ruota sul Main Stage è arrivato il momento dei DOOM. Il tempo di realizzare con preoccupazione a cosa si va incontro e si corre dall’altro lato. Hanno appena iniziato, la sala è piena ma ci si muove bene e riusciamo a piazzarci nemmeno troppo lontano dal palco e stare lì tutti compiti a goderci l’esibizione. Purtroppo i buoni propositi durano poco e ci si ritrova in mezzo al pit. Da quel momento è tutto un tripudio di sudore, legnate, il palco dominato da una piovra fatta di dreadlock che si dimena. In barba al punk, la resa sonora e la precisione d’esecuzione sono assurde. Lectio magistralis e spettinata da ricordare per tutti i presenti. Chiaramente stanno sul podio fra i migliori.
Purtroppo però mi perdo gli ultimi due brani. Ho i brividi di febbre, sono disidratato, ho salvato vite umane che si lanciavano dal palco come lemmings dalle scogliere, le ho salvate da terra, dai lati, persino io potevo continuare a vivere se mi fossi spostato repentinamente a rinfrescarmi al bar e avessi cambiato la maglietta madida di liquami. E così mi perdo, mio malgrado, un finale degno di nota, a detta di chi c’era. Allo stesso modo i pantaloni sono sporchi di impronte di scarpe fino all’altezza del ginocchio e ciò mi induce a riflettere sul fatto che quel luogo comune sull’equivalenza fra crust e sporcizia potrebbe nascondere un fondo di verità. Non che ci sia tanto tempo per riflettere, però, perché è già il turno di Bologna Violenta e Discomostro.
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Doom
Ci dividiamo letteralmente fra i due palchi minori: il Mirror Stage viene schiaffeggiato dai DISCOMOSTRO, che colpevolmente scopriamo proprio in questa occasione, e che sembrano davvero irresistibili nel loro hardcore sguaiato e sornione. Sono giovani di bellissime speranze – il batterista, poi, una vera mina – ma in formazione c’è un personaggio che nuovo non è, ovvero Carlame degli Skruigners, in questo caso mattatore dietro al microfono. Siamo gasatissimi, ma lasciamo la stanza a metà set perché sull’Uppercut Stage c’è BOLOGNA VIOLENTA che suona Uno Bianca per intero e non ce lo perderemmo per nulla al mondo.
Quando arriviamo la sala è avvolta dal buio, illuminata esclusivamente dalle visual che sono vere protagoniste dell’esibizione. Uno Bianca è la soundtrack di una strage a puntate, raccontata dagli allucinanti video a luci bianche e nere che si alternano in sequenze a prova di epilessia, e in questa occasione appare decuplicata nel suo parossismo, in un suono criminale e terroristico. Nicola Manzan, che per l’occasione riveste i panni di one-man band, si posiziona ai lati del palco-ring, al buio, osservando la propria creatura con devozione, proprio come se si trattasse della sonorizzazione di un lungometraggio. L’effetto è sconvolgente e manca persino il respiro, in una sala stipata di avventori, in cui si respira solo fumo e polvere da sparo.
Atmosfera simile, ma con altri risvolti, in un Main Stage pronto, buio e inondato di fumo. La sala è piena, due figure entrano dal backstage. Una è alta e massiccia, si siede dietro la sagoma di una batteria minimale, l’altra più bassa e gracile, attraversa il palco e imbraccia una chitarra. Non hanno bisogno di presentazioni. L’intro di “Satanam”, una preghiera rituale vietnamita, si alza insieme alle luci e gli OVO attaccano. Bruno Dorella è precisissimo, pesante e travolgente. Stefania Pedretti urla in suoni arcani che gelano di inquietudine mentre con la chitarra fa tremare le viscere al pubblico. Notevolissima e suggestiva l’esecuzione di “Eternal Freak”: un Dorella impeccabile nel drumming e un’indemoniata Pedretti che lascia la chitarra per scendere tra il pubblico e urlare la sua rabbia su tutti e tutto. Anche questa volta, sul palco del Krakatoa IIII gli OvO non deludono sia i fan che chi ha avuto la fortuna di scoprirli sentendoli suonare per la prima volta. Si è trattato di una perfomance da brividi, letteralmente sconvolgente, l’ennesima conferma del calibro di questo duo allucinato e allucinante.
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Riviera
Siamo in dirittura d’arrivo, ed è tempo dell’ultimo live sull’Uppercut Stage, quello dei RIVIERA. Ora, per chi scrive i Riviera sono stati un punto cardine, un piccolo classico, il sottofondo di tutto un periodo, nonché il ponte verso il mondo della musica triste. Quindi, in barba a un’indicibile stanchezza, mi tuffo (bomba) sotto al ring per uno show che è esattamente come me lo aspettavo: sgraziato, scanzonato, naif, con le camicie a fiori, la tromba e un magnifico intermezzo con “Africa” dei Toto cantata in coro da tutti i presenti. Mi guardo attorno e sono solo, nel senso che non vedo più i miei amici, perché evidentemente a loro questa storia dei sentimenti non piace; c’è pure della gente che poga e mi rovescia addosso uno Spritz, ma che dire, mi guardo attorno e sorrido, perché c’è un’atmosfera di presa a bene generale che è come un grande abbraccio. La performance è sentitissima sia da chi sta sotto che da chi sta sopra al ring, complice una scaletta di brani totalmente votati alla coralità di intenzione ed esecuzione. Sbraitare “Piscina” a un live dei Riviera era uno degli obbiettivi di vita del me diciottenne. Nient’altro da aggiungere.
Neanche il tempo di rimettere in sesto i pensieri, sul main stage sta per concludersi la serata nel migliore dei modi.
Non appena gli STORM{O} iniziano a palesarsi accorro alle transenne come un bambino che sgambetta in fretta e furia verso il cortile non appena suona la campanella della ricreazione. Spensierato, con le farfalle che ti svolazzano intorno alla testa e gli uccellini che cantano per te. Faccio in tempo ad aggrapparmi alla transenna, niente pit stavolta, gli occhi puntati sul palco, e comincia il terremoto. Presentano il nuovo Finis Terrae, affiancandolo però con i loro migliori cavalli di battaglia ed è la chiusura di giornata migliore che ci si potesse aspettare. I ragazzi sono particolarmente in forma e carichi. Stefano sembra un automa ad orologeria, una macchina di precisione. Luca si lancia sulle persone, Giacomo e Fede grattugiano la faccia a tutti. Ondate ininterrotte di corpi si scagliano contro di me e cercano di trascinarmi nei loro vortici infernali. Sulle transenne ci si dimena come King Kong arrampicato sull’Empire State Building, tutti trafitti da uno show che ci lascia stupefatti e a bocca aperta.
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Storm{O}
Ancora scossi e disarmati dall’ottima performance degli Storm{O}, convinti che per Sabato 5 ottobre sia tutto, veniamo improvvisamente attirati da un frastuono colossale che nemmeno il programma del Krakatoa IIII ci aveva annunciato, e ci dirigiamo verso l’Uppercut Stage più incuriositi che sorpresi. Varcata la soglia lo spettacolo che ci troviamo davanti è quello di un satiro indemoniato di corporatura abbondante, a torso nudo e sudato, un menestrello demoniaco immerso in una luce sanguigna che brandisce e brutalizza, ma con un’abilità tecnica da vero virtuoso, un violoncello distortissimo amplificato da una testata Sovtek da chitarra e una Ampeg da basso. Ai suoi piedi due casse di batteria, una delle quali abbinata a un piatto china. La sua voce gutturale urla testi aggressivi e felicemente volgari, mentre la sua bocca sputa e beve birra. Ci rendiamo presto conto che ciò che stiamo vedendo e sentendo è strabiliante, sconcertante, sorprendente e assurdamente brutale. Chi è MR. MERCAILLE? Un genio? Un folle? Un profeta? Un essere mitologico? Tutte queste cose insieme? Che importa, è sicuramente un artista capace di regalarvi un’esperienza imperdibile e unica nel suo genere.
Lasciamo il TPO in trance, col fardello d’aver aggravato i nostri problemi con l’alcol ed i vizi ma con la consapevolezza di aver fatto parte di una delle migliori giornate di musica dell’anno.
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Mr. Mercaille
Domenica 6 ottobre
La domenica inizia prestissimo. Giusto il tempo di capire cosa era successo il giorno prima, calcolare nuovi budget per merch e bar, mangiare un boccone ed eccoci di ritorno al TPO assieme ad una piccola folla già radunata. Arriviamo che nel Mirror suonano i Paperoga e pare che il fest si sia avviato con quasi una mezzora di scarto che in qualche modo, più o meno, sarà recuperato durante la serata. Certo, il sabato si era stati impeccabili, la domenica si era tutti un po’ provati e stanchi e pretendere puntualità sarebbe stato oltre ogni umana pretesa.
È nell’apparente tranquillità del primo pomeriggio e tra le prime birre della seconda giornata del Krakatoa che arriva un’ondata di maleducatissimo noise hardcore dal Mirror Stage. I PAPEROGA scaldano infatti il palco ed il pubblico con una violenta incursione di distorsioni di chitarra, unite ad una batteria dalla vena grindcore, con il comune scopo di molestare il più possibile i presenti. Un set costituito da “vecchi” e nuovi brani suonati, tra problemi tecnici vari, con la consapevole indecenza che ha sempre contraddistinto la band.
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Paperoga
Gli ATTIC, per cui nutrivamo una certa curiosità, suonano il loro nuovo EP Interiors e se la cavano egregiamente sfoderando una prova muscolosa e dalla notevole perizia tecnica con tanta attitudine hardcore e suonando un mathcore caotico e noiseggiante che ci ha convinti pienamente. Peccato solo che fosse presto, specie per riempire la sala del Main.
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Attic
Cambiano le sonorità quando i THE HAUNTING GREEN prendono totalmente possesso del palco più grande, il Volcano Stage, sin dal momento in cui ci salgono su. Impetuosi ed ipnotici, il duo doom sperimentale suona integralmente il nuovo full length Natural Extinctions pubblicato quest’anno, aggiudicandosi, a mio avviso, una tra le performance migliori a livello tecnico e di impatto sonoro del Volcano stage di tutto il festival. Particolarmente apprezzati sono stati i ringraziamenti della band nei confronti del pubblico, in cui è stata sottolineata l’importanza che ha effettivamente avuto il Krakatoa Fest per la scena underground italiana e non.
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The Haunting Green
Sull’Uppercut è il momento dei Kint, Vespertina e Francesco Molinari dei Mood, che si alternano tra chitarra e tastiere. È uno dei momenti più magici dell’intero Fest. Presentano il nuovo lavoro Thimbles/Ossa, un episodio crossover più che uno split, a nome KINT + VESPERTINA. La sala è raccolta, gli occhi riversano tutte le loro attenzioni sul palco, sembra quasi sacrilego applaudire per non interrompere quella sorta di incantesimo sul palco, un miracolo di grazia. Ma gli applausi scrosciano sonanti per questa strana creatura tricefala ed lo show va oltre ogni aspettativa.
Nel Mirror è il turno degli/le HYLE, combo crust/death quasi tutto al femminile, con eccezione per il basso, anche se non mi è chiaro se sia un rimpiazzo momentaneo o un cambiamento fisso di line-up. La saletta come sempre è affollata e c’è tanto interesse del pubblico. Le prime file iniziano ad agitarsi, si inizia a respirare un’atmosfera punk, la cantante, se la memoria non mi inganna, viene alzata in aria. C’è qualche impercettibile imprecisione ma è uno show che vive di energia ed immediatezza ed in questo senso è risultato pienamente efficace.
Siamo a metà pomeriggio quando il Main stage viene allagato dalle desolanti note di “Jonio” mentre il palco è ancora vuoto. Due animali rabbiosi invadono il palco, lo fanno in silenzio, uno si siede dietro alle pelli, l’altro imbraccia una chitarra. “Non piangere. E prenditi cura di te. Buio”: inizia così la mortificazione, e fa paura, molta, troppa. Inutile mettere in guardia il pubblico contro i CANI DEI PORTICI, ognuno in quella sala sa che non potrà avere scampo, non ne è soltanto consapevole, ha deliberatamente deciso di non averne: è già cibo per cani. I brani di Due si susseguono senza pietà, uno più violento dell’altro, è un capolavoro di efferata mattanza acustica. Il brano di chiusura è inedito, un piccolo gioiello ritmico nell’intro e un brutale serie di calci nei denti fino al finale. Proprio quando avevamo iniziato a capire “che stiamo sbagliando” ci siamo resi conto che non solo era troppo tardi, ma che i Cani dei Portici non si erano accontentati di sbranarci vivi come hanno fatto fino a oggi: stavano già deturpato i nostri corpi fino a ridurci a brandelli. Claudio Adamo e Demetrio Sposato non sono umani, e per fortuna di tutti noi. Questo Krakatoa ne è l’ennesima brutale conferma.
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Cani Dei Portici
Prendiamo posizione nell’Uppercut Stage mentre gli ARTO eseguono il soundcheck, non vogliamo perderci un solo momento del loro show, neppure i preparativi. E come ci aspettavamo la band inizia da subito a sorprenderci: l’opener è “EN” il nuovo singolo da poco rilasciato dalla band, un brano complesso e magnifico, rabbioso, inquieto e claustrofobico, un eccellente e quasi naturale evoluzione umorale di ciò a cui ci avevano abituato l’anno scorso. Il live prosegue con le tracce di Fantasma, tra le quali meritano una speciale menzione “Trauma”, “Larva” e soprattutto “Ship Of Theseus” eseguita con rara perfezione, e forse anche con qualcosa in più: è qualcosa di fortunatamente indefinibile. Gli Arto non possono deludere, è ormai una certezza. Le chitarre di Bruno Gemano e Cristian Naldi sono perfette nel suono, differente e complementare, impeccabili negli incastri ritmici, negli arpeggi e nel layering a base di delay e modulazione. La sezione ritmica è semplicemente indescrivibile: il basso di Luca Cavina è immenso, sia tagliente che morbido, calibrato e maneggiato con l’originalità che solo un gran musicista riesce a esprimere sul palco, mentre il drumming spezzato e sincopato di Simone Cavina guida la band e le dinamiche come forse pochissimi altri batteristi riescono a fare. Ma d’altronde quali altri musicisti sono capaci di impattare, straniare ed emozionare il pubblico con una proposta musicale di una forza simile? La risposta è semplice: gli Arto, gli Arto e nulla più.
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Arto
La tarda serata prevede un grande momento di aggregazione, e ancora una volta un repentino cambio di atmosfere, con l’arrivo dei DSA COMMANDO, gruppo dall’esperienza decennale che ha attratto al festival un pubblico differente rispetto a quello presente nei giorni precedenti e che ha saputo integrarsi perfettamente al contesto, portando sul Volcano stage un set ricco di brani hit della loro discografia. A chiudere la performance, poi, un massiccio regalo da parte di Kaos One che ha raggiunto il gruppo sul palco per un DJ set.
Arriva quindi il momento di uno degli show più attesi del fest. Ascoltare con dolore non è cosa per tutti: è una questione di carne gotica. L’Uppercut Stage è vuoto, l’attesa sembra interminabile, l’inquietudine è palpabile: il pubblico chiede in silenzio il loro male. Una voce dal buco di un passamontagna ci urla in faccia: “tra il dolore e il nulla io scelgo il nulla”. Quello che segue è brutalità, violenza e disperata negazione: è qualcosa che soltanto chi conosce le conseguenze del vivere nella Capitale del Male può capire fino in fondo, ma è anche qualcosa che sicuramente riesce a scuotere e annientare chiunque abbia la fortuna di subirlo ai piedi di un palco. Sono due, si fanno chiamare non necessari, non hanno volto né identità, ma trasmettono un’immensa e magnifica rabbia. Chiunque l’abbia provata sulla propria pelle non può che chinare la testa e mortificarsi nella gratitudine. Gli Hate&Merda suonano i brani de La capitale del male con una violenza rara e presentano i brani del nuovo EP Un coltello sotto il letto divide il dolore in due, incendiando il Krakatoa IIII con ritmiche convulse, urla e noise laceranti, fino alla fine dell’“Inesorabile Declino” che siamo costretti a vivere come miseri umani. Una chitarra enorme, tagliente come una lama, dolorosa e violenta, una batteria che mai aveva suonato con così tanta perfezione: è l’inconfondibile promessa di negazione degli Hate&Merda.
È con ancora in mente i crigni e il sorriso di Naresh, e con un’inspiegabile ed insana sensazione di voler succhiare il cazzo, che lasciamo mestamente, tirandocela più che potevamo, quest’ultima edizione del Krakatoa. Sembra che dal palco gli Zu abbiano esortato i ragazzi del Krakatoa a continuare a tenere in vita il fest e noi ci accodiamo accorati, augurandoci di salutare la perdita devastante del Krakatoa non con un requiescat in pace ma con un ad maiora.