In un’ipotetica classifica dei fenomeni celesti in grado di sconvolgere l’apparente immutabilità della volta celeste, le supernove possono sicuramente avanzare una più che autorevole candidatura per un posto sul podio, in un concentrato di spettacolarità e devastante potenza che ha pochi eguali tra le visioni siderali in cui è possibile imbattersi, scrutando il cielo. A dispetto dell’apparente casualità dell’evento, però, l’astronomia ha abbondantemente chiarito che le supernove non sono il prodotto di circostanze fortuite che portino un astro a esplodere in siffatta, “pirotecnica” modalità, bensì il frutto di particolari condizioni di partenza, tra cui la massa della stella gioca un ruolo più che fondamentale assurgendo al ruolo di attributo imprescindibile. Se, quindi, la comunità scientifica può affermare di poter esplorare il cosmo con relative certezze, lo stesso non può dirsi per i viaggiatori pentagrammatici, a cui potrà sempre capitare di imbattersi in band protagoniste di vere e proprie esplosioni artistiche, improvvise e luminosissime, non preannunciate dai bagliori sia pur anche significativi emanati in precedenza.
È questo sicuramente il caso dei tedeschi Laudare, band nata a Lipsia nel 2017 e subito protagonista, un anno dopo, di un esordio tutt’altro che banale, d.é.o.m.é., orientato su rotte post-metal dalle significative venature black, con un riuscito gioco di incastri e rimandi tra passaggi visionari, muscoli in tensione e improvvisi strappi alla tela narrativa (provare l’ottima “Begging Substance” per credere… e per cominciare a prendere confidenza con il già all’epoca articolato comparto vocale dei Nostri). Il successivo EP del 2020, Have Heart, Waste Flesh, ha sostanzialmente confermato le buone impressioni suscitate dal debut e, restando in metafora astronomica, ha fatto ipotizzare per questi ragazzi una relativamente canonica dimora nel quartiere post- della metal galassia, con una scorta di materia ed energia sufficiente per garantire una collocazione intermedia nella scala della luminosità, ma le due tracce della Jadeturm Live Session del 2022 hanno improvvisamente mescolato le carte, modificando e ampliando notevolmente gli assi portanti del progetto. Certo, l’ingresso del violoncello nell’arsenale degli strumenti è indubbiamente il dettaglio che colpisce di primo acchito, ma in realtà è stata l’intera proposta a entrare in movimento e trasformarsi, con la componente prog a prendere rapidamente campo accompagnata da equilibrati richiami neoclassici. È vero, stiamo parlando di due sole tracce e di appena undici minuti complessivi di viaggio, ma, riascoltato il tutto con l’orecchio del “poi”, si possono cogliere gli inequivocabili segnali di avvio del processo che giunge oggi a compimento con questo magnifico Requiem. Ed eccola qui, la supernova che non ti aspetti, il distillato aureo di forma ed emozione in cui al trionfo dell’ispirazione si accompagnano modalità espressive ardite e in apparenza di difficile fruizione, ma che, affrontate con il dovuto abbandono, alzano l’asticella del coinvolgimento a livelli impressionanti. Prog e post-metal immersi in una magica pozione avantgarde, tocchi folk, musica da camera, cori gregoriani, cantato in latino, non c’è un solo solco che scivoli via nell’ordinarietà ma, contemporaneamente, nemmeno per un attimo si ha la sensazione di una ricerca forzata dell’effetto a tutti i costi o di una postura autoreferenziale a caccia di una nicchia in cui compiacere un manipolo elitario di devoti. Con simili premesse, è praticamente impossibile indicare possibili pietre di paragone davvero esaustive e convincenti, ma, forse, in termini di approccio più che di resa artistica tout court, si può azzardare più di qualche punto di contatto con la non meno straordinaria traiettoria degli australiani Ne Obliviscaris, non fosse altro che per il ricorso agli archi (lì il violino, qui il violoncello) e per la capacità innata di alternare strappi abrasivi, allucinazioni sonore e lagune melodiche. È dunque davvero difficile stilare una graduatoria dei meriti di un album praticamente perfetto in ogni dettaglio, ma, procedendo in ordine sparso, possiamo partire senz’altro dalle prove monumentali di tutti i musicisti coinvolti, a cominciare dal violoncello struggente ma che non disdegna anche la potenza di Almut Voigt, passando per una sezione ritmica da applausi e per l’accoppiata muscoli/ricami della sei corde di Daniel Kaltofen, per approdare infine al coro dell’università di Lipsia, chiamato in causa in tre tracce molto più che in banale modalità-cammeo. A questo proposito, un capitolo assolutamente a parte va riservato all’intero comparto vocale, autentica arma letale del platter brandita praticamente da tutti i componenti della lineup con esiti sempre sublimi. Che si tratti delle spine acuminate disseminate dall’eccezionale scream al femminile di Marie-Luise Thurm, delle impeccabili incursioni di Kaltofen o degli inserti eterei affidati a lady Voigt, il risultato è sempre lo stesso, cioè rasentare la perfezione complessiva e dei singoli dosaggi. Dieci episodi dalla durata contenuta per poco più di quaranta minuti di ascolto (in questo si materializza un’evidente differenza rispetto alle citate consonanze con i Ne Obliviscaris, che prediligono invece dilatare le tracce fino alle soglie della chilometricità), Requiem è il classico album da divorare tutto d’un fiato e senza soluzione di continuità, realizzando così quella immersione totale che è requisito fondamentale per apprezzarne impianto complessivo e dettagli. Praticamente tutte le stazioni del viaggio hanno fondatissimi motivi per una sosta, ma dovendo proprio indicare qualche scorcio particolare di un paesaggio come detto splendido nel suo insieme, ci permettiamo di suggerire le trame intrise di potenza e malinconia di “Dies Irae”, le tempeste di “Quid Sum Miser”, le spire prima diafane e poi cadenzate in chiave doom di “Rex Tremendae” o la terremotante “Quaerens Me”, con il suo irresistibile invito a scuotere arti e crani. Forse però, a conti fatti, le vette assolute coincidono con la chiamata in causa del coro, che nobilita ulteriormente la triade di cui è protagonista, con “Lacrimosa” (che si abbevera a una vena liturgica prima di atterrare in pieno territorio avantgarde), “Sanctus” (che conduce idealmente prog e black sotto le navate austere di una cattedrale ricombinandoli in chiave solenne in un finale da crollo del loggione) e la conclusiva “Dies Irae”, che spende alla perfezione le sue carte apparecchiando una cerimonia dai tratti quasi mistici che minaccia (con successo) la percezione spazio-temporale.
Un ascolto indubbiamente impegnativo ma che ripaga l’attenzione con una straordinaria profondità di campo, il coraggio di scelte artistiche non convenzionali capaci di andare oltre la semplice ricombinazione dei generi chiamati in causa, Requiem è un album che entra di diritto nel catalogo delle stelle musicali fisse di questo 2024 (e non solo…). Il termine “capolavoro” va sempre centellinato e speso con parsimonia, ma stavolta la candidatura dei Laudare è troppo autorevole, per non concederlo.
(Moment Of Collapse Records, 2024)
1. Introitus
2. Dies Irae
3. Quid Sum Miser
4. Rex Tremendae
5. Quaerens Me
6. Lacrimosa
7. Offertorium
8. Hostias
9. Sanctus
10. Agnus Dei