La cagnolina Laika, Jurij Gagarin, Neil Armstrong… se organizzassimo un sondaggio per identificare i nomi che l’immaginario collettivo riconduce con più immediatezza all’esplorazione spaziale, ci sono pochi dubbi su chi occuperebbe i posti del prestigioso podio e ancor meno sul fatto che pochi citerebbero il primo uomo ad aver passeggiato nel vuoto cosmico. Era il 18 Marzo 1965 e il portello dell’abitacolo della navicella Voschod 2 si apriva per far uscire il cosmonauta sovietico Aleksej Archipovič Leonov, agganciato a una semplice corda di sicurezza e coperto dalla prima tuta appositamente creata per proteggere un corpo in assenza di ossigeno e gravità.
Quasi cinquant’anni dopo quell’eroico cimento, a sollevare almeno in parte la polvere dell’oblio dal nome Leonov ha provveduto in ambito musicale un quintetto di Oslo, partito per l’esplorazione di lande post-rock dalle significative nervature space nel 2014 con il full length omonimo e atterrato nel 2018 su suoli alle soglie dell’eccellenza grazie al magnifico Wake. Per l’occasione, alla componente post- primigenia si erano affiancati e, alla resa dei conti, significativamente sovrapposti ragguardevoli innesti doom, sia pur atmosfericamente declinati e orientati a quella resa esoterico/iniziatica che caratterizza spesso (e quasi sempre con ottimi risultati) i moniker che abbiano scelto di puntare sul cantato al femminile. Non stupisce, quindi, che in quella circostanza siano state scomodate stelle di prima grandezza sul versante dei possibili richiami, dal dark post-apocalittico di Chelsea Wolfe alle spire ipnotiche di marca Sera Timms al microfono Ides of Gemini, passando per il minimalismo di taglio cantautorale di una Carline Van Roos, in casa Lethian Dreams. A cinque anni di distanza, i norvegesi riprendono ora il volo con questo Procession, dimostrando di non aver perso il tocco magico sfoderato nel predecessore nonostante una parziale modifica dei dosaggi delle singole spinte creative. Nel complesso, infatti, il nuovo album risulta meno muscolarmente definito, privilegiando piuttosto la dimensione cinematografico/contemplativa e i ricami eterei, il tutto immerso in una nebulizzazione malinconica che rende sfuggenti le forme e attutisce i colpi. Intendiamoci, non siamo assolutamente al cospetto di un lavoro segnato dalla rinuncia definitiva agli stilemi metal, ma è un dato di fatto innegabile che nella circostanza i Leonov abbiano privilegiato il lavoro sulle atmosfere e affinato ulteriormente il rapporto con le melodie, aumentando il tasso di potabilità dell’insieme senza peraltro mai inseguire tentazioni easy listening. Su queste frequenze, diventa pressoché inevitabile l’incontro con la poetica shoegaze (o con qualsivoglia possibile coniugazione del suffisso -gaze secondo le sempre più certosine classificazioni in voga, che finiranno prima o poi per renderne incomprensibili confini e significati) e qui i norvegesi danno il meglio di sé, evitando stucchevoli effetti-cammeo e sfruttandone opportunamente tutte le potenzialità per trasporre in musica raccoglimenti e introspezioni. Sull’altro piatto della bilancia, il quintetto non rinuncia a escursioni significative in territori dominati da inquietudine e senso di straniamento e in questo caso, ovviamente, la prua vira immediatamente verso un post-metal visionario che, pur non ricorrendo mai al registro del tragico o del prometeico, trasmette una sensazione non meno pungente di tristezze e solitudini inestricabilmente connesse alle nostre quotidiane fatiche nel mondo reale. Anche stavolta, un po’ buco nero e un po’ stella di neutroni, il centro di gravità che tutto attira e tutto irradia è la voce di Tåran Reindal, a un ascolto superficiale quasi asettica e distaccata ma in realtà chiave di volta dell’intera struttura, con la sua straordinaria capacità di utilizzare la tavolozza dei grigi in tutte le sue sorprendenti sfumature. Oltre ai già citati accostamenti (e ovviamente al netto di un timbro vocale tutt’altro che automaticamente sovrapponibile), ci sentiamo nella circostanza di azzardare un paragone con una Alison Shaw degli esordi con i suoi Cranes, altra regina di frammenti apparentemente diafani, filiformi e di disarmante semplicità, che però si combinano a comporre un quadro d’insieme incredibilmente caleidoscopico. Dopo la breve e strumentale “Rem”, il sipario su Procession si alza ufficialmente con “Amer”, chiarendo immediatamente che melodie, aperture eteree e improvvise piogge acide (eccellente, nell’occasione, il ricorso a uno scream maschile che “sporca” il finale con vista Amenra), possono tranquillamente convivere sotto lo stesso tetto. La componente visionaria si prende il centro della scena nella title-track, irrobustita da una sezione ritmica protagonista soprattutto nella seconda metà del brano (con citazione d’obbligo per il lavoro alle pelli di un ispiratissimo Jon-Vetle Lunden), mentre le sei corde disegnano traiettorie vagamente industrial. Il rientro su rotte meno tormentate è affidato alle spire lente e sinuose di “Sora”, che si permette finanche di rischiare la carta di un quasi-ritornello senza timore di abbassare l’asticella della profondità e del coinvolgimento emozionale. Un delicato sciabordio di onde in placida risacca e più di qualche coriandolo space accompagnano a lungo la trasognata “Mesos”, ma l’ora della perla della compagnia scocca probabilmente con “Oreza”, sintesi perfetta tra un’andatura cadenzata sullo sfondo e un palco su cui lady Reindal indossa i panni della sirena ammaliatrice, lasciando dubbi irrisolti sulla sorte di estasi o tormento che attende chi abbia scelto di farsi incantare. La fine del viaggio arriva sulle note rarefatte e diradate di “Son”, trionfo di abbandoni e malinconie in chiaroscuro che riassumono alla perfezione il senso dell’intero platter, con la sua luce fioca che illumina ombre che alla fine non fanno mai davvero paura, avendo scelto di sottrarsi timidamente alla vista piuttosto che allungarsi minacciose come alfieri e vessilliferi dell’oscurità.
Post-rock/metal per palati fini in grado di apprezzare la cura dei dettagli e il lavoro di cesello lasciandosi trasportare da un raffinato gioco di immagini e note in inseparabile congiunzione, Procession conferma tutte le qualità sprigionate dai solchi dell’illustre predecessore cinque anni fa. Anche stavolta l’atterraggio della navicella Leonov è stato impeccabile, non resta che sintonizzarsi e godersi le trasmissioni.
(Vinter Records, 2023)
1. Rem
2. Amer
3. Procession
4. Sora
5. Mesos
6. Oreza
7. Son