Premesso che nessuna ansia da catalogazione o, peggio ancora, nessuna crociata classificatoria potrà e dovrà mai permettersi di prendere il sopravvento sulla fruizione pura della musica e sui gusti che necessariamente la accompagnano, chi ci segue su queste pagine si sarà probabilmente accorto che siamo discretamente restii a ricorrere all’etichetta “funeral” per definire lavori che le stesse band o le label e le agenzie annunciano come tali nei booklet che ci inviano in redazione. Non si tratta, ovviamente, di un tentativo di valorizzare in chiave elitaria la dimensione di nicchia di un sottogenere né tantomeno di stabilire a priori un rapporto aureo di proporzionalità inversa tra numeri e qualità, ma è un dato di fatto che troppo spesso si finisce per identificare come funeral tutto ciò che comporti soltanto un rallentamento estremo dei ritmi, dimenticandosi del contributo fondamentale che deve arrivare sul versante delle atmosfere e su quello dell’immobilità del tempo, oltre che del ritmo, per produrre quegli effetti realmente stranianti che sono il tratto imprescindibile della poetica del genere.
Se poi si passa dal piano formale a quello sostanziale, l’impressione è che le occasioni per gridare al funeral-miracolo siano tutt’altro che a buon mercato, in un microcosmo che gioca per definizione su uniformità e assenza di variazioni per rendere più acuto il senso di desolazione che ci sovrasta, ma fortunatamente c’è un manipolo di moniker su cui puntare a occhi chiusi, con la certezza che ogni loro release scriverà una pagina importante e significativa per la sorte dell’intero movimento. Ed è questo sicuramente il caso dei Mesmur, progetto internazionale che taglia il traguardo dei dieci anni di carriera potendo legittimamente vantare lo status di nume tutelare del genere, dimorando ormai da tempo in una fascia di eccellenza non propriamente affollatissima, su queste frequenze. Mossi con il debut omonimo i primi passi in territori ancora segnati per larghi tratti da una prospettiva doom/death, infatti, il quartetto ha spiccato il volo nel 2017 con il magnifico S e si è ripetuto due anni dopo con il non meno convincente Terrene, dimostrando di maneggiare con una maestria fuori dal comune il doppio binario della monumentalità e della spettralità e creando così un connubio a tinte più che vagamente teatrali (la conclusiva, drammatica “Caverns of Edimmu” rendeva benissimo l’idea). Va detto peraltro che, rispetto alle rotte classicamente tracciate dai giganti del genere (Mournful Congregation e Skepticism su tutti ma, più in generale, la grande maggioranza dei moniker che si sono apprestati al cimento), i Nostri hanno sempre attinto con estrema parsimonia al registro del lugubre e la scelta viene ribadita anche in questo Chthonic, che ancora una volta conferma l’indole tendenzialmente visionaria della band, a cui si affianca una cura tutt’altro che meramente accessoria per le strutture dei brani. Beninteso, sarebbe improprio e fuorviante parlare di dinamismo o anche solo di significative evoluzioni nelle trame, ma è innegabile che angoscia, desolazione e fatale rassegnazione, in casa Mesmur, siano solo in parte frutto di un approccio “descrittivo” dell’umana condizione schiacciata dal peso degli infiniti che la sovrastano. In realtà, la sensazione prevalente che si aggira per il platter è quella di una disperazione quasi eroica, che adombra ancora qualche sia pur vano sussulto di ribellione alla dittatura del Destino e che si traduce musicalmente in passaggi eretici in grado di insidiare l’uniforme monoliticità dell’insieme. Ecco allora più di qualche frammento liricamente orientato (il ricorso a viole e violoncelli magicamente branditi dall’ospite Brianne Vieira va ben oltre la banale dimensione-cammeo) e qualche libera uscita della sei corde di Jeremy Lewis in territorio melodico, senza dimenticare alcune schegge black che, come al solito, John Devos dispensa con il suo lavoro alle pelli. L’ortodossia del genere è comunque saldamente presidiata grazie ai rintocchi cadenzati del basso di Michele Mura e alla prova al microfono del vocalist Chris G, anche stavolta impeccabile con il suo growl non profondissimo ma perfetto per stendere sui solchi una patina di inquietudine che sfocia non di rado in un senso di oppressione. Ad arricchire ulteriormente il quadro provvede oltretutto l’organo di sua maestà Kostas Panagiotou, con cui del resto è in atto una collaborazione “bidirezionale” visto che la coppia Lewis/Devos, poco più di un anno fa, è stata parte integrante della line up dell’ultimo, strepitoso full-length di casa Pantheist, Closer To God. Al netto della coppia strumentale intro/outro che apre e chiude le danze (la breve e senza troppe pretese “Prelude” e la conclusiva, eterea e struggente “Coda”, che affida ai tasti del buon Kostas il compito di salutare i viandanti con un inatteso raggio di luce crepuscolare), il cuore pulsante di Chthonic ruota intorno alla triade centrale, con tre episodi dalla durata chilometrica che, complessivamente, superano i quaranta minuti di ascolto. Si comincia subito alla grande con le spire ipnoticamente accattivanti di “Refraction”, innervata da inattesi refoli space che acuiscono il senso di smarrimento mentre intorno la sezione ritmica accumula macigni oscuramente minacciosi, ma proprio quando lo sviluppo del brano sembra segnato, ecco che nel corpo centrale dapprima Lewis occupa il centro della scena con un ricamo di chitarra e, subito dopo, Devos incrementa improvvisamente i giri motore sparigliando le carte. Si rientra subito nei sacri crismi del genere con la successiva “Petroglyph”, tra architetture imponenti e un’andatura pesante che toglie il respiro e offusca la linea dell’orizzonte, ma anche qui non manca il colpo di scena, affidato a un delicato e quasi struggente inserto di archi che disegnano malinconici arabeschi prima di essere inghiottiti dall’oscurità. È quindi il turno della traccia-monstre della compagnia, “Passage”, che sfiora la soglia dei venti minuti con tutte le carte in regola per spaventare eventuali ascoltatori occasionali che abbiano poca dimestichezza con il genere, ma alla prova dei fatti la scalata risulta molto meno faticosa del previsto, offrendo diverse occasioni per riprendere fiato e ammirare la magnificenza del paesaggio che si spalanca davanti ai nostri occhi. Così, tra spunti lovecraftiani (a tal proposito, citazione d’obbligo, con lode, per l’artwork della cover, affidata anche stavolta alle sapienti mani di Vladislav Cadaversky), passaggi pachidermicamente orientati, qualche strappo abrasivo e abissi carichi di mistero che invitano al salto eroico o alla caduta accidentale, non mancano momenti dominati da malinconia e poetici abbandoni, per una resa caleidoscopica che si candida al ruolo di manifesto artistico dell’intero movimento, dimostrando che musicalmente anche il nero può avere sfumature… infinite, suggestive e incantevoli.
Profondo, pesante e oscuro ma tutt’altro che impenetrabile, tanto da meritarsi una collocazione non così impegnativa sulla scala della fruibilità; emozionante, coinvolgente e con una cura formale che è merce rara a queste latitudini pentagrammatiche, Chthonic si candida di slancio a un ruolo di pietra miliare del funeral doom d’autore ben oltre gli angusti confini delle uscite annuali. Lo scrigno dei Mesmur si è arricchito di un altro gioiello, non resta che aprirlo e ammirare una collezione che guadagna carati ad ogni pubblicazione.
(Aesthetic Death, 2023)
1. Chthonic (Prelude)
2. Refraction
3. Petroglyph
4. Passage
5. Chthonic (Coda)