“Alba”, così è titolato il primo brano del debutto dei Messa. Un’alba che sta a significare un nuovo inizio per i quattro giovani veneti, desiderosi di trasmettere nuove sensazioni musicali. Ogni musicista proviene da ambienti diversi, ed in questo progetto vanno a confluire mentalità tra le più disperate (stoner, grind, hardcore, dark, doom tra le tante). Il progetto, nato nel 2014, arriva quindi al primo grande passo, chiamato per l’occasione Belfry, ben simboleggiato dalla cupa copertina. Musicalmente ci si trova al cospetto di sonorità parecchio inflazionate, specie negli ultimi tempi: un doom metal occulto con voce femminile, intersecato però con pennellate di drone, blues ed un pizzico di stoner (più qualche altra piccola finezza). Per dare delle coordinate sonore, si pensi ad un ibrido di Avatarium, Jex Thoth e Windhand.
Dopo un intro rumorista dall’effetto straniante (la già citata “Alba”), l’album entra nel vivo, mostrando fin da subito le sue peculiarità. “Babalon” irrompe potente, grazie ad un oscuro riff sabbathiano, che si attenua lasciando spazio alla voce della cantante Sara, dotata di un timbro esile ed angelico che cresce piano piano di intensità fino all’evocativo chorus (uno tra i migliori del disco). La chitarra è mortifera e velenosa negli arrangiamenti, ma non manca di inserire dei piccoli tocchi dinamici e variegati. Si ascolti ad esempio l’inno “The Hour Of The Wolf”, dove ad arpeggi profumati di blues e southern vengono abbinati dei veloci e potenti giri stoner (stile Pentagram). Purtroppo però accade che quando la potenza strumentale aumenta la voce venga schiacciata, in quanto non abbastanza aggressiva e “cazzuta” quando i tempi si fanno più movimentati. È pur vero anche che questo sbilanciamento sparisce nelle parti più atmosferiche e meno pesanti, come la finale “Confess”, traccia di polveroso blues acustico, in cui le vocals sono perfettamente a loro agio, dimostrandosi eteree ed allo stesso tempo sciamaniche e lascive.
Stessa cosa accade per la lunga canzone chiamata “Blood”, una delle perle di quest’album, che nonostante inizi in maniera catacombale poi si evolve in un affresco sonoro caratterizzato da un sound ipnotico e pinkfloydiano, tra percussioni tribali, riff di chitarra oriental/stoner, arrangiamenti di clarinetto e sax, sempre ad opera di Alessandro Brunetta (Glincolti e Calibro35), e vocals allucinate disperse nello spazio. Da segnalare un ulteriore ospite, Yakamoto Kotzuga (alias Giacomo Mazzuccato), dedito agli arrangiamenti elettronici di brani come “Bell Tower” e “Tomba”, che sono però più degli intermezzi che dei protagonisti veri e propri. Ciò crea la sensazione di un esperimento riuscito a metà, che mal si assembla al resto del disco. A creare perplessità contribuiscono “New Horns” e “Outermost”, due pezzi che, nonostante contengano ottimi assoli, non riescono mai a decollare, creando un senso di staticità opprimente.
Belfry è un debutto a due facce. Ovviamente c’è indecisione sul da farsi, ma nel complesso ci sono molte idee sfiziose su cui lavorare per imbastire nuovi piani. Brani più deboli e colpi da maestro si sfidano in questo disco, ma ci vorrà del tempo per vedere chi riuscirà a prevalere. Per il momento ci godiamo tanta bella musica, perché in fin dei conti quello conta. Consigliati senza dubbio.
(Aural Music, 2016)
1. Alba
2. Babalon
3. Faro
4. Hour of the Wolf
5. Blood
6. Tomba
7. New Horns
8. Bell Tower
9. Outermost
10. Confess