I Messa sono una di quelle band da hype immediato. Esplosi sulla scena, soprattutto quella locale, ancor prima del disco di debutto, ha visto nel giro di pochissimo un’attenzione decisamente elevata. Il quartetto veneto, dopo un primo album (Belfry) esaltato fin troppo da critica, fan ed addetti ai lavori, si presenta nel 2018 con un nuovo disco da cui non si sapeva esattamente cosa aspettarsi. L’esordio era decisamente volto a strizzare l’occhio a sonorità doom/stoner con vocals femminili (genere salito molto in auge negli ultimi tempi) e non era privo di difetti o ingenuità, ma lasciava intravedere delle potenzialità. Il nuovissimo Feast For Water cambia quasi totalmente le carte in tavola tirando fuori dal cilindro parecchie cose inaspettate.
Dopo l’intro dalle tinte ambient “Naunet” (la divinità egizia che rappresentava la parte femminile delle acque) ci si sarebbe aspettata la classica traccia distorta e tonante, ma non è così, in quanto “Snakeskind Drape”, pur con una batteria diretta, si presenta melodica con una chitarra più pulita rispetto al passato che si lancia in diversi tocchi blues, specie nell’assolo. Va precisato che fin dai primi minuti si nota come il livello qualitativo tecnico/compositivo generale sia nettamente migliorato e di parecchio. Se nel disco precedente le tracce tendevano a seguire uno schema abusato, nella nuova opera cambia tutto: la voce della cantante Sara in primis, molto più sicura, si tinge di tonalità inusuali come nell’erotica e jazz “Leah”, canzone votata al saliscendi emotivo, con un finale dove le vocals volano letteralmente in un’atmosfera epica da brividi, come pure “The Seer” dove si vede nuovamente l’alternanza tra parti pestate e sabbathiane (ma con una sezione ritmica già più rilassata e jazzy) ed un lavoro alla sei corde in continua evoluzione. “She Knows” parte con un piano Rhodes, piano elettrico molto usato negli anni 50’, e alterna nuovamente bordate doom metal a sezioni più placide con un cantato camaleontico e molto teatrale – si respira David Lynch in più di un’occasione – che si lancia nel ritornello più potente del disco. “Tulsi” (pianta di basilico sacra indiana) rovescia nuovamente la situazione con un riffing più quadrato e monolitico, assalti di batteria estremi (black metal?) che lasciano spazio ad un mood gotico e malinconico, scandito da un sax. L’unica concessione alla “forma canzone”, o meglio ad un ascolto più easy è “White Stain” un viaggio disperso tra l’etereo ed il roccioso che non lesina comunque impatto e neppure dolcezza, che porta al catartico finale con “Da Tariki Tariqat” (tradotto in “Nell’oscurità, il sentiero” frase proveniente da Qutub di Andrew D. Chumbley, scrittore e poeta inglese di testi di magia), pezzo dall’impronta etnico/orientale in versione dark.
Il secondo lavoro dei Messa presenta maturità, voglia di andare oltre, cura nei testi, come pure nella mistica copertina, ed un notevole miglioramento generale, che dimostra che i ragazzi hanno imparato dai propri errori lavorando sodo e ripagando gli ascoltatori con un disco fantasioso. Si potrebbe azzardare che ci sia fin troppa carne al fuoco o che le canzoni seguano la tecnica del binomio violento/atmosferico ma la realtà è che il disco stupisce in positivo. Ottimo lavoro!
(Aural Music, 2018)
1. Naunet
2. Snakeskind Drape
3. Leah
4. The Seer
5. She Knows
6. Tulsi
7. White Stain
8. Da Tariki Tariqat