“Sine ira et studio”… Con queste semplici parole, in apertura dei suoi celebri Annales, lo storico romano Tacito fissava le linee guida della sua opera, innalzando le bandiere dell’imparzialità e dell’obiettività come vessilli dietro cui schierarsi nell’esposizione e nella valutazione di fatti e vicende, senza lasciare che le opinioni personali condizionino i giudizi o, peggio, si spingano ad alterare la realtà. Allo stesso modo, nell’infinitamente piccolo delle recensioni musicali, l’intento più o meno orgogliosamente dichiarato delle penne che si apprestano all’arduo cimento dovrebbe essere quello di non farsi trascinare oltremodo da gusto e passioni personali, cercando di offrire quadri critici il più possibile equilibrati da cui siano banditi impeti di entusiasmo a prescindere così come, al contrario, preconcette chiusure preventive. Ci sono però casi in cui l’algido distacco da anatomista si rivela impresa davvero oltre le forze dell’umile scribacchino, costretto inevitabilmente ad ammettere che una band è in grado di trasmettergli emozioni con il semplice annuncio della pubblicazione di un nuovo album, per non parlare dei primi crepitii dei solchi appena piazzata la puntina sul vinile.
Per chi scrive, è questo sicuramente il caso dei Messa, ormai da anni proiettati ben oltre la banale (e quanto mai provinciale) dimensione dell’”orgoglio tricolore” guadagnandosi sul campo i galloni di uno status internazionale di tutto rispetto. In dieci anni di carriera, affrontati con una line up graniticamente immutata, il quartetto veneto ha saputo confermare tutte le premesse già in nuce nel debut Belfry, riuscendo contemporaneamente nell’impresa di rinnovarsi ed esplorare nuovi territori ad ogni release. Se è vero, peraltro, che la patente dell’incollocabilità e della non appartenenza a un genere sembra essere diventata l’imprescindibile passepartout per godere di plauso e consenso della critica, ci permettiamo di continuare a collocare i Nostri in un orizzonte sostanzialmente doom, per quanto dai confini estremamente dilatati finanche alle soglie dell’eresia rispetto a canoni presuntamente classici. Certo, chi si avventuri sulle loro tracce aspettandosi una declinazione del genere secondo i crismi della scuola scandinava contemporanea rischia di arrivare a fine corsa con un più che vago senso di smarrimento, ma bisogna sempre ricordare che le radici del doom affondano nella grande lezione hard rock ed è proprio partendo da questa base, maneggiata con classe sopraffina, che i Messa mettono a segno colpi a volte finanche sorprendenti, permettendosi di spaziare dal jazz al gothic o dall’occult rock alla world music con disarmante semplicità. Li avevamo lasciati, nel 2022, alle prese con le divagazioni folk/mediterranee/orientaleggianti dell’acclamatissimo Close e, da allora, molta acqua è davvero passata sotto i loro ponti, a cominciare dall’approdo nella scuderia di una major del calibro della Metal Blade passando per il drammatico incidente stradale che li ha visti sfortunati protagonisti dopo l’ultima data francese del tour di lancio dell’album. C’era dunque una sorta di spasmodica attesa per il nuovo, annunciato cimento, anche se, a dir la verità, i due brani rilasciati in anteprima avevano già abbondantemente chiarito che era più che lecito attendersi la conferma dei soliti, clamorosi standard qualitativi. Ed effettivamente questo The Spin si rivela l’ennesimo gioiello di una corona che aggiunge carati ad ogni incastonatura, rasentando le stesse vette artistiche dell’illustre predecessore. Annunciato dall’artwork di una cover che riproduce il leggendario uroboro (che ci piace pensare simboleggi nella fattispecie la dichiarazione di intenti di una continua trasformazione senza rotture con il passato), il nuovo lavoro certifica, per i pochi che avessero ancora avuto dubbi, lo status di fuoriclasse che ormai il quartetto può più che legittimamente vantare. Accanto a una sostanziale continuità stilistica, però, è altrettanto importante sottolineare gli elementi di novità con cui i Messa lastricano ogni nuovo sentiero tracciato e stavolta la scelta è caduta sulle sonorità dark e gothic di stampo ottantiano, da intendersi peraltro come attitudine e approccio più che come riferimenti diretti e, tantomeno, come richiami articolati magari in forma di tributo e cammeo. Per il resto, le armi storicamente vincenti della band si confermano in tutta la loro devastante lucentezza, a cominciare dall’ennesima prova vocale da standing ovation di Sara Bianchin, come sempre a proprio agio in un’infinità di vesti e ruoli, un po’ sacerdotessa di misteriosi riti iniziatici, un po’ interprete pura, un po’ raffinata rock singer, a volte graffiante, quasi sempre pifferaia di Hamelin in servizio permanente a distillare pozioni magiche che ammaliano e conducono lontano. Se a questo aggiungiamo una sezione ritmica in forma impeccabile per garantire compattezza ai brani e una sei corde solista che Alberto Piccolo sa perfettamente quando e come portare in scena per provocare immediati crolli dei loggioni, il risultato è un album in cui il quartetto si spinge oltre il concetto di band, lambendo la dimensione-orchestra. Sette tracce per poco più di quaranta minuti di ascolto complessivo, The Spin è un caleidoscopio di colori ed emozioni in perenne trasformazione e metamorfosi, a partire dall’opener “Void Mother” con i suoi riflessi darkwave e dalla successiva “At Races”, che celebra con opportuno senso della misura i fasti della grande stagione Killing Joke (e qui si impone un rinvio al magnifico video che accompagna il brano, road movie a bordo di una Kawasaki d’antan alla scoperta degli spomenik jugoslavi). L’anima hard rock della band batte un colpo significativo con la travolgente “Fire on the Roof”, perfetta sintesi di muscoli in tensione, potenza e melodia, mentre tocca ai bicchieri di whisky di una sala fumosa anni Quaranta fare da sfondo alla raffinata ed elegante “Immolation”, dove Sara indossa i panni della chanteuse fatale. Se già in questo caso contaminazione e sperimentazione emergono prepotentemente come cifra stilistica decisiva, il secondo singolo pubblicato in anteprima, “The Dress” è la sublimazione dell’approccio eretico del combo veneto alla materia metal e finanche rock, con una strepitosa digressione jazz pilotata dalla tromba dell’ospite Michele Tedesco, che lascia un’impronta indelebile su uno degli indubbi vertici creativi del platter. Al cospetto di un siffatto totem, qualunque successore rischia di finire in un inevitabile cono d’ombra ed effettivamente “Reveal” è forse l’episodio meno scintillante della compagnia, ma i Nostri hanno comunque il grandissimo merito di mescolare completamente le carte rilasciando scariche di adrenalina ed energia ad allo stato puro, dimostrando che il cordone ombelicale che li lega al dimenar di membra e chiome sotto i palchi è tutt’altro che reciso. Ammetto, a questo punto, che (a chi scrive) si fosse insinuato il dubbio sulla scelta della rotta per affrontare al meglio il gran finale, ma la risposta è semplicemente straordinaria, con un brano che lotta con più di una freccia all’arco per il titolo di best of dell’intero lotto. Non è solo il gioco di intrecci fra gothic e hard rock, non è solo il tono vagamente liturgico/cerimoniale del cantato di Sara, non è solo un retrogusto psych che cosparge la trama di coriandoli onirici, la verità è che “Thicker Blood” ha le stimmate del distillato aureo di ciò che i Messa sono in grado di preparare nel loro antro magico… e la calata del sipario con uno strappo black che squarcia un malinconico e struggente velo post-rock è uno dei fuochi d’artificio che vale un’intera carriera, per capacità di sorprendere ed emozionare.
Nuove forze di gravità che chiamano a sé orbite antiche e consolidate, nuovi orizzonti degli eventi dove restare sospesi sfuggendo alla dittatura dello Spazio-Tempo, nuove prospettive in cui la forza di un’ispirazione fuori dal comune esclude qualsivoglia ricorso a comodi cliché, The Spin è un album che incanta, trascina e travolge, creando un composto unico di materia, energia, luci, ombre e vuoto. Con simili premesse, è impossibile ostentare prudenza o simulare algidi distacchi, i Messa hanno semplicemente confezionato qualcosa di grande: si chiama capolavoro.
(Metal Blade Records, 2025)
1. Void Meridian
2. At Races
3. Fire on the Roof
4. Immolation
5. The Dress
6. Reveal
7. Thicker Blood