“E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe.”. Così, poco più di 50 anni fa, nel romanzo Le Città Invisibili, Italo Calvino riprendeva temi cari all’iconografia preromantica smontando l’equazione classica cimitero/dolore per sottolineare la dimensione lirico-poetica di un luogo dove le prosaiche tempeste delle umane passioni lasciano il posto a una pace senza tempo, di cui la musica è parte costitutiva ed essenziale.
Per chi frequenta le metal-lande con un approccio se non superficiale quantomeno sommario, la tematica cimiteriale è quasi pavlovianamente associata al funeral doom, inteso come distillato aureo di tutto ciò che è in grado di trasmettere angoscia, disperazione e dolore, ma, per chi abbia voglia e modo di andare oltre le apparenze, il genere in questione ha in serbo sorprese che, se non proprio riconducibili ai trilli di flauti e agli accordi d’arpe di cui parla Calvino, possono agevolmente smontare luoghi comuni e immagini stereotipate. Ecco allora che la pesantezza cadenzata non spalanca necessariamente tragici abissi ma può diventare da un lato maestosità quasi liturgica e dall’altro malinconico abbandono. Beninteso, non è da tutti maneggiare siffatti registri con aperture alari che consentano di affrontare voli così impegnativi, ma, se all’impresa si cimentano i fuoriclasse del genere, i dubbi sull’esito svaniscono pochi secondi dopo aver avviato l’ascolto. È sicuramente questo il caso degli australiani Mournful Congregation, assisi da tempo sul seggio più alto del consesso funeral planetario e che ad ogni uscita confermano le straordinarie qualità di una carriera nel frattempo prossima a tagliare il ragguardevole traguardo dei trent’anni. Li avevamo lasciati, un anno fa, alle prese con il primo capitolo di un’annunciata rentrée in due atti, in formato EP, che ha interrotto il silenzio dopo The Incubus of Karma, ultimo full-length del quintetto di Adelaide. Già in sede di recensione di quel primo episodio avevamo sottolineato come la definizione di EP risulti comunque decisamente riduttiva per una band che non ha mai lesinato sul minutaggio dei propri lavori, sia complessivamente, sia in riferimento alle singole tracce proposte e anche questo The Exuviae of Gods – Part II si pone nel solco della tradizione, mettendo in campo un viaggio che sfiora i quaranta minuti articolati in soli tre episodi. Le corrispondenze con il predecessore, peraltro, non si limitano agli aspetti strutturali e temporali, ma si estendono anche alle scelte artistiche dei Nostri, che, con l’opener “Heads Bowed”, completano l’operazione-recupero del materiale contenuto nella demo del 1995 An Epic Dream of Desire, offrendo una intelligente riscrittura che aggiorna, senza stravolgerlo, l’impianto originale e dimostrando come la band abbia saputo mettere a più che proficua dimora lo scorrere del tempo, con un processo caratterizzato indubbiamente da un discreto labor limae formale che non intacca però il carico magnetico dell’originale. Saldato il debito con il passato, i due inediti in tracklist confermano come la declinazione della poetica funeral possa essere molto più ricca ed elaborata di quanto non preveda (e si attenda) la vulgata comune, a cominciare da una “The Forbidden Abysm” che, pur facendo emergere in tutta evidenza quelle radici doom/death che sono state il carburante imprescindibile per avviare il motore del genere, allo stesso tempo imbarca elementi di imponenza quasi cerimoniale, proponendo una sorta di passeggiata ideale tra monumenti funebri che, più che certificare le umane sconfitte al cospetto del Tempo, sono piuttosto la testimonianza dell’eroismo di una specie priva del dono dell’immortalità e costretta a portare il peso di una simile condanna dimenticandosi quotidianamente dell’ineluttabilità dell’incontro con il Destino. Con simili premesse, ci sarebbero tutti gli ingredienti per una narrazione tragica e drammatica, ma già da tempo i Mournful Congregation hanno sviluppato una sensibilità malinconica che si nutre di chiaroscuri in caleidoscopica combinazione e questa straordinaria capacità celebra il suo trionfo nella clamorosa e monumentale suite che chiude il lavoro, “The Paling Crest”, oltre 18 minuti di poesia emozionante e per larghi tratti struggente che avanzano un’autorevolissima candidatura a un ruolo da protagonisti nell’intera discografia del quintetto. L’arma letale per raggiungere vette per altri assolutamente impervie e impraticabili è anche stavolta il ricorso alle sei corde acustiche, maneggiate magistralmente dal duo Good/Hartwig in un tripudio di arpeggi delicatamente commoventi, mentre intorno dilaga un retrogusto ad alto tasso melodico che crea atmosfere magiche da cui sono rigorosamente banditi riflessi stucchevoli o melensi, ulteriormente arginati oltretutto dalle incursioni sempre impeccabilmente centellinate del cantato di un Damon Good sempre da applausi con il suo scream/growl sabbioso e soffocato.
Strutture imponenti e maestose tra cui si aggirano ombre inquiete ma anche inaspettati e significativi frammenti dove luci e colori crepuscolari illuminano la scena in un abbraccio quasi rassicurante, visioni che incombono minacciose ma alla prova dei fatti meno sinistre di quanto sia lecito attendersi su queste frequenze, controbilanciate come sono da una vena poetica che intreccia alla perfezione eleganza, raffinatezza e cura per i dettagli, The Exuviae of Gods – Part II è l’ennesima prova superata di slancio da una band che non conosce il significato della parola mediocrità, nemmeno nell’aurea declinazione latina del termine celebrata da Orazio. Buon trentennale di carriera, Mournful Congregation e grazie per averci dimostrato che i suonatori si possono nascondere davvero, tra le tombe.
(Osmose Productions, 20 Buck Spin, 2023)
1. Heads Bowed
2. The Forbidden Abysm
3. The Paling Crest