Solide basi, una dose di coraggio e creatività abbondantemente sopra la media, una line-up nel complesso stabile e una discografia con release a cadenze tutto sommato regolari… pur consapevoli che visibilità e successo siano tutt’altro che una scienza esatta, ci sentiamo di affermare che raramente come nel caso dei transalpini Mourning Dawn a una presenza di tutti gli ingredienti giusti non ha misteriosamente corrisposto finora una ribalta pure meritatissima alla luce dell’impegno profuso dalla band in una carriera ormai ultraventennale. Non che siano mai mancati del tutto drappelli di devoti alla miscela di doom, black e death metal distillata negli anni dai parigini, ma l’impressione è che un immotivato cono d’ombra abbia costantemente impedito ai Nostri di ascendere all’empireo dei grandi, confinandoli in una dimensione di nicchia per quanto qualitativamente sempre da applausi.
Dopo un’interminabile sequenza di problemi personali, inconvenienti e contrattempi tecnici, l’ottimo Dead End Euphoria aveva comunque ribadito, tre anni fa, che il carburante nel serbatoio era ben lungi dall’essere esaurito e, anzi, pronto a essere utilizzato in nuovi dosaggi e combinazioni. Ecco allora che, a fronte di un relativo arretramento delle spigolosità di classica matrice black, i francesi avevano puntato su atmosfere più plumbee e tossiche, perfette per trasmettere quella sensazione di rabbia, amarezza e dolore che si è imposta come cifra stilistica caratteristica di quel platter. C’era dunque molta curiosità intorno alla traiettoria artistica da tracciare per il prosieguo della carriera e questo The foam of despair non tradisce le attese, candidandosi subito autorevolmente a probabile vertice del viaggio fin qui intrapreso. È bene chiarire subito, peraltro, che, pur non essendo in presenza di uno stravolgimento vero e proprio delle coordinate impostate nei cimenti precedenti, ci troviamo stavolta al cospetto di un album che allarga non poco l’orizzonte dell’ispirazione, azzardando (riuscitissime) escursioni in territori pentagrammaticamente ad ampio spettro. Se, dunque, la componente gothic già in filigrana nel predecessore occupa ora uno spazio ben più significativo (con l’avvertenza che parliamo sempre di un gothic lontanissimo da derive posticce o da easy listening, con le ombre lunghe dei Paradise Lost e dei primi Katatonia a proporre scenari sinistri sullo sfondo), è probabilmente il post-metal a conquistarsi sul campo la palma di genere in maggior spolvero insieme alle consuete, cadenzate pesantezze doom che non abbandonano mai il proscenio. Il risultato è una visionarietà a metà strada tra gli imponenti ed evocativi affreschi cinematografici di scuola Cult of Luna e i tormenti claustrofobici di marca Amenra. A guarnire il tutto con un tocco quasi esotico ma assolutamente funzionale alla resa dell’insieme; provvede poi un inatteso gusto electro che in qualche episodio osa finanche lambire soglie trip-hop, con l’aggiunta di intere sezioni dominate da una voce narrante che sprigiona vapori quasi lovecraftiani, contribuendo ad incrementare ulteriormente la profondità di campo della proiezione. Su tutto, brilla la prova monumentale del deus ex machina del combo, Laurent Chaulet (sempre peraltro impeccabilmente assecondato dal basso di Vincent Buisson e dal lavoro alle pelli di Nicolas Joyeux), in grado di spaziare con pari, convincenti esiti dalla declinazione metal “classica” a quella estrema nella gestione delle sei corde, ma, soprattutto, titolare di uno scream acuminato e straniante per cui è tutt’altro che un reato scomodare sua maestà Colin H. van Eeckhout, come possibile, nobilissimo termine di paragone, non fosse altro che per gli squarci di inquietudine che riesce ad aprire nella trama dei brani. Sette tracce dalla durata ragionevolmente sostenuta per un ascolto complessivo di poco superiore ai cinquanta minuti, The foam of despair apre subito le ostilità con l’episodio più legato agli stilemi del passato dei parigini, “Tomber du temps”, ma proprio quando ci si accomoda pensando di sorseggiare il classico cocktail di doom e black, ecco che prima Chaulet tira fuori dal cilindro un assolo di scuola ottantiana e poi, del tutto inatteso, piomba sulla scena il sax dell’ospite Adrien Harmois, che ci trasporta su incantevoli lidi prog/psichedelici (sono assolutamente autorizzati accostamenti alla tromba di Erik Palmberg che chiude “Following Betulas”, dalle parti di Umeå…). Da questo momento, forse con la sola, parziale eccezione di qualche divagazione dal sapore industrial che rischia di trascinare un po’ troppo stancamente “Apex”, non c’è che l’imbarazzo della scelta nella ricerca di spunti per cui valga la pena di immergersi totalmente nelle spire oscure che si sprigionano dai solchi, a cominciare da una “Blue pain” che sfodera tratti da hit intrecciando magistralmente potenza e melodia (oltre a una nota di merito aggiuntiva per l’ospite convocato al microfono, Olmo “Déhà” Lipani) e passando subito dopo alla sinuosa “Borrowed skin”, in cui luci e tenebre ingaggiano uno scontro che dispensa poesia a piene mani. Detto di una “Suzerain” che celebra i fasti di un’elettronica spesa con intelligenza e senso della misura per aggiungere un tocco di algida spettralità all’insieme e di una “Midnight sun” che chiude il viaggio in una sorta di crepuscolo nebbioso da cui non si riemerge a riveder le stelle, ci sentiamo di proporre come distillato aureo dell’album la magnifica “The color of waves” (da gustare preferibilmente nella versione integrale piuttosto che in quella “da singolo”, perché tre minuti in più fanno davvero la differenza, qui), autentico capolavoro notturno in cui trionfa un gothic d’autore malinconico e quasi struggente, appena increspato da onde post-metal che aumentano il senso di smarrimento di fronte ad Infiniti improvvisamente apparsi ma che non hanno bisogno di minacciarci, per farci sentire tutto il loro inesorabile peso.
Potente, oscuro e minaccioso ma contemporaneamente capace di avvolgere con un imprevisto manto lirico e poetico, profondissimo ma non per questo impenetrabile, The foam of despair è un album che certifica definitivamente lo status di stella di prima grandezza di una band che merita molto più di quanto riscosso finora. Per chi li ha seguiti in questi anni è semplicemente la prevista conferma di qualità già da tempo in campo, per chi non li avesse mai incrociati è un’occasione straordinaria per incontrare finalmente i Mourning Dawn.
(Aesthetic Death, 2024)
1. Tomber du temps
2. Blue pain
3. Borrowed skin
4. Apex
5. Suzerain
6. The color of waves
7. Midnight sun