Dopo il convincente EP d’esordio Terminus, il duo emiliano Nadsat, chitarra e batteria – i bassisti, si sa, sono cosa rarissima – è tornato con un nuovo lavoro, Crudo. Le coordinate sono più o meno le stesse, quelle di un math inquieto e selvaggio. Ciò che è cambiato è l’approccio. Se il precedente lavoro era legato a filo doppio a suggestioni sci fi, qui riecheggianti al più solo nell’altissima tensione di “ATP”, questo Crudo manca di ogni referente contenutistico. Allo stesso modo, se in Terminus le trame strumentali ospitavano di quando in quando comparsate di voce, adesso non ce n’è più traccia. Meno presenti infine quelle influenze che facevano capolino nel lavoro d’esordio. Di noise, psych e prog, linguaggi con cui i Nadsat avevano pure giocato, resta giusto del prog nella conclusiva “Dolomite”.
Per il resto Crudo vuole essere prettamente uno studio sulla mera forma musicale. Si assiste all’escalation immediata dell’opener “Mesozoic”, ai suoi rallentamenti, stop, aperture, con una batteria che non di rado in questa sede ricorda quella dei Primus. La dialettica tra i due strumenti prevale in “Sivik”, caratterizzata da ventate acide e da una chiusura pencolante. “Umhlaba”, che dovrebbe voler dire “suolo”, è lynchiana, o chapliniana se si vuole – il che ci darebbe una chiave di lettura importante – con le sue reiterazioni alienanti e industriali. Se difatti richiama alla mente certa meccanicità sgranata e cupa di Eraserhead, è altrettanto rintracciabile una chiave più giocosa, quella, mettiamola così, di Tempi Moderni. “Novus” è la perfetta sintesi del bifrontismo dei Nadsat. L’attacco è faceto, quasi circense, ma cresce, s’incattivisce ingrossandosi, e ancora si dipana in momenti di distensione, e poi ancora è ossessivamente martellante prima di fare tabula rasa (Eraserhead, dicevamo) e scrutare altre traiettorie e possibilità. Ancora, quel “suolo” credo suggerisca bene l’impianto materico di Crudo, fatto di addizioni e sottrazioni, di pieni e vuoti, quasi si trattasse di una scultura – d’altro canto Leon Battista Alberti nel suo De Statua suddivide le tecniche scultoree per via di porre o per via di levare. Ma, dato l’artwork, di Inserire Floppino, più che a una scultura rinascimentale, con la quale pure condivide l’ossessione per la forma, si potrebbe pensare anche alle tecniche post moderne del collage, brani di materia giustapposta per dar vita a nuove forme e nuovi sensi. Tale condizione postmoderna viene avvalorata, penso specialmente a “Droid”, da certe composizioni votate all’happening, all’evento, disposte a una fruizione che si esaurisce nell’immediatezza e nella provvisorietà della performance, frutto, immagino, di estenuanti jamming in studio.
Se a tutta prima Crudo sembrerebbe null’altro che una ricerca formale, tra il serio ed il giocoso, pare invece che – alla faccia di quanto recita il comunicato stampa sul fatto che l’album non avrebbe alcun piano di lettura – alle sue spalle si stagli l’ombra di una forte teorizzazione, di un’idea, un contenuto.
(Toten Schwan, Upupa Produzioni, Vollmer Records, Oh! Dear Records, E’ un brutto posto dove vivere, Koe low profile distro, 2017)
1. Mesozoic
2. ATP
3. Novus
4. Carcharodon
5. Umhlaba
6. Sivik
7. Droid
8. Dolomite