“Questo non ancora, ma il prossimo sarà sicuramente l’album della loro consacrazione definitiva”… E’ diventato una sorta di mantra in modalità “marchio di fabbrica”, quello che da ormai un quarto di secolo accompagna (e in parte tormenta) la carriera degli Officium Triste, sempre sul punto di spiccare il volo definitivo verso la sommità dell’Olimpo doom ma allo stesso tempo protagonisti di prove in cui alla pur innegabile apertura alare della band non ha corrisposto una spinta in grado di condurre alla dimensione dell’eccellenza.
Ennesimo prodotto di quel brodo doom/death primordiale di impronta novantiana che ha generato fuoriclasse destinati all’immortalità del calibro di Anathema e Paradise Lost, il combo olandese capitanato dal carismatico Pim Blankenstein ha regalato subito bagliori di gran classe con l’ottimo debut Ne Vivam e ha saputo ripetersi su buoni livelli anche nelle successive release, dando però l’impressione di non riuscire mai a combinare davvero magicamente ingredienti pur selezionati e maneggiati con grande padronanza in termini di potenzialità e dosaggio. Senza che, ovviamente, questo rappresenti di per sé un segnale di involuzione o declino (i Draconian possono continuare a ricevere meritatissime devozioni, divinamente assisi sul trono del loro regno), agli Officium Triste non ha giovato la progressiva dilatazione della componente gothic nei loro album, che, se da un lato ha indubbiamente dato lustro all’impeccabilità delle forme, dall’altro ha penalizzato in parte la componente emozionale, a cominciare dalla perdita di centralità dei riff che avevano impreziosito gli esordi a vantaggio di una cura sempre più certosina per la componente melodico/atmosferica. Va detto, peraltro, che anche in un lavoro come il controverso Mors Viri non erano mancati momenti ed episodi di pregio assoluto (“The Wounded and the Dying” e “Like Atlas” su tutti), ma una parte non trascurabile di critica e ascoltatori aveva individuato in quel platter sinistri scricchiolii tali da addensare nubi minacciose sul futuro della band e dunque il ritorno sulla scena dei Nostri a ben sei anni di distanza dall’ultima fatica non poteva non portare con sé un carico di incognite e timori. Per chiunque fosse in attesa di risposte o verdetti definitivi, però, questo The Death of Gaia non scioglie i dubbi (o la prognosi, per chi avesse scorto risvolti patologici nella traiettoria artistica culminata nel predecessore) e ci regala i “soliti” Officium Triste, assolutamente inattaccabili sul piano della godibilità ma ancora una volta con più di un’ombra sul versante della profondità. Scomparsi quasi del tutto i richiami al death (variante melodica inclusa), resta sul campo il binomio tra gothic e doom, con il primo dei due elementi che occupa prepotentemente il centro di una scena in cui non c’è posto per angosce e tormenti e dove tutto è illuminato dalla luce fioca della malinconia, al massimo appena increspata da una vena di inquietudine. Con simili premesse, è inevitabile che papille gustative abituate agli assaggi My Dying Bride possano ritrarsi perplesse faticando a riconoscere i sapori di casa Stainthorpe, ma, a dispetto di una vulgata comune che ha sempre voluto vedere affinità e somiglianze, le strade delle due band seguono ormai da tempo rotte diverse (sia pure non del tutto divergenti) e ai ragazzi di Rotterdam va comunque riconosciuto il merito di non cedere mai alla tentazione di approdare al gothic stucchevole o da cassetta. In quest’ottica si può valutare nel complesso positivamente la scelta di ricorrere al cantato femminile più che in semplice modalità-cammeo, anche se la prova delle due ospiti, Chiara Kwakernaak e Mariska van der Krul, a dire il vero, troverà difficilmente posto negli annali della memorabilità (e comunque è un’ottima notizia che a Rotterdam e dintorni ci si tenga a debita distanza dal cliché vocale the beauty and the beast, oltre che dalle spire teatralmente symphonic). Tra le note positive, peraltro, non può mancare la solita citazione d’obbligo per la prova di Blankenstein, sempre impeccabile con il suo growl dolente e catacombale in grado di ergersi come bastione quasi sempre invalicabile di fronte a un fiume troppo languidamente melodico che sembra assediare minacciosamente il cuore della cittadella, ma, rispetto al passato, in questo The Death of Gaia l’argine fatica a contenere la spinta in arrivo da tappeti di tastiere che valicano spesso il confine dell’invasività, contribuendo a quel lavoro di arrotondamento degli angoli e limatura degli spigoli su cui aggiunge un ulteriore carico da novanta la propensione orchestrale che anima l’intero viaggio. Così, l’ora di ascolto scivola via senza intoppi ma anche sostanzialmente senza momenti che costringano davvero a compulsivi ricorsi al tasto “rewind”, regalando un lotto di tracce complessivamente uniformi ed equidistanti da picchi di indimenticabilità o totale anonimato. Certo, non mancano episodi di sicura collocazione su gradini nobili della scala qualitativa (personalmente scegliamo l’opener “The End Is Nigh”, forse non a caso il brano in cui riecheggia più convintamente lo spirito degli esordi e, soprattutto, la multiforme “The Guilt”, impreziosita da un corpo centrale dove spicca un delizioso trionfo d’archi), ma, all’altro capo dello spettro, si segnalano passaggi decisamente meno riusciti (qui la contro-corona d’alloro se la disputano “Like a Flower in the Desert” e “Shackles”, pezzi che faticano a trovare un cuore pulsante e girano a lungo a vuoto mostrando la corda del mestiere), conducendo i naviganti in porto con qualche affanno di troppo.
Raffinato ed elegante, frutto del lavoro di una band che ha scelto sempre più convintamente di percorrere sentieri discretamente impervi per chi cerchi nel doom una granitica fedeltà ai sacri crismi del genere, The Death of Gaia è un album che, pur nella discontinuità della resa, supera abbondantemente la soglia della sufficienza e raggiunge confini che sarebbero un miraggio per tanti attori che si agitano sulla scena alla ricerca di un posto al sole. Il punto però è proprio questo, è giusto accontentarsi dell’ennesima, “soltanto”, buona prova di una band che ha tutte le carte in regola per stupire? Nonostante un quarto di secolo di (finora vana) attesa, noi restiamo convinti che per gli Officium Triste siano ancora tutte aperte, le strade che portano al capolavoro.
(2019, Transcending Obscurity Records)
1. The End Is Nigh
2. World in Flames
3. Shackles
4. A House in a Field in the Eye of the Storm
5. The Guilt
6. Just Smoke and Mirrors
7. Like a Flower in the Desert
8. Losing Ground