Cambi di moniker, volatilità della line up, abbandoni dolorosi, pause di riflessione, reunion inattese, traiettorie musicalmente non sempre coerenti… in qualsiasi genere e a qualsivoglia latitudine la storia delle metal band è raramente riconducibile a un concetto di “stabilità”, quasi che per imperscrutabile volere divino la creatività debba obbligatoriamente viaggiare di pari passo con strappi biografici o artistici da cui trarre nuova linfa (o meritarsi velenosi strali dai fans più oltranzisti, pronti a gridare al tradimento per ogni curva in un percorso che si pretende immutabilmente lineare). Se poi una metal carriera osa addirittura varcare la soglia del quarto di secolo, cercare una linea di sviluppo graniticamente in linea con le premesse squadernate in un esordio risulta impresa degna di un contemporaneo Sisifo pentagrammatico.
Come caso di scuola a conferma dei processi descritti, prendiamo la storia degli ateniesi On Thorns I Lay; figlio di quel brodo death/doom tipicamente novantiano in cui la spigolosità della prima componente faceva complessivamente aggio sulle potenzialità melodiche della seconda (con Orama e Crystal Tears a contendersi il primato del vertice qualitativo raggiunto), l’allora quartetto capitanato dalla coppia Kintzoglou/Dragamestianos ha progressivamente virato verso sonorità sempre meno muscolari, imbarcando un gusto gothic/indie-rock sempre più filiforme che ha finito per trasfigurare gli impianti originari al punto che nell’oggettivamente controverso Egocentric la band era sembrata prossima ad approdi Radiohead. Era l’ormai lontano 2003 e da allora, per dodici anni, la band ha fatto perdere le tracce di sé, fino al rientro sulle scene con un album come Eternal Silence che, senza rinnegare una tendenza di fondo alle concessioni easy listening (qui incarnate dalla scelta di affidarsi a linee vocali femminili di rapido impatto), mostrava una buona messa a dimora di suggestioni Katatonia e Paradise Lost. La vera svolta, però, si è concretizzata due anni fa con l’ottimo Aegean Sorrow, in cui i Nostri hanno riannodato i fili del discorso con la tradizione death/doom degli esordi riaggiornandola alla luce dei mutamenti indotti in questi anni dalla planetaria affermazione della scuola scandinava con tutto il suo carico di suggestioni malinconiche innestate su strutture maestosamente magniloquenti. C’era dunque grande attesa per l’annunciata, nuova release e davvero questo Threnos ripaga con gli interessi la fiducia di chi negli anni non ha mai smesso di credere che il combo greco avesse nelle corde “il” colpo in grado di proiettarli nel novero dei grandi interpreti del genere. Approdati sotto le insegne Lifeforce Records (a proposito, ecco un’altra realtà che completa il quinto lustro di più che onorata attività…) e confermata dietro le quinte la mano magica di Dan Swanö, gli On Thorns I Lay proseguono sulla rotta tracciata dal predecessore accentuando da un lato la solennità delle atmosfere, che in più di un’occasione trasudano un’austerità quasi rituale, e dall’altro i toni crepuscolari, che sopraggiungono puntuali a interrompere il flusso narrativo per regalare momenti di trasognato abbandono. All’interno di una cornice così ben definita, anche la mai sopita pulsione gothic dei Nostri trova modo di dispiegarsi in assoluta armonia con il resto delle spinte stilistiche in campo, con una nota di merito particolare per l’uso sempre equilibrato di tastiere e violini che aggiungono delicati ed eleganti riflessi all’insieme senza minarne forza e compattezza con stucchevoli sdolcinature. Non meno decisiva ai fini dell’economia del platter, la prova al microfono del vocalist Stefanos Kintzoglou rasenta l’impeccabilità grazie a un growl che, pur senza possedere i tratti della catacombalità, è dotato di una profondità tutt’altro che ordinaria, contribuendo in maniera significativa a quella drammatizzazione delle tracce per cui sono giustamente venerati gruppi del calibro di Amorphis e Insomnium, senza dimenticare sullo sfondo i Paradise Lost e, in misura minore, qualche spunto My Dying Bride. Quando poi, come nell’opener “The Song of Sirens”, la coppia d’asce Pastras/Dragamestianos osa avventurarsi sulle orme della lezione Saturnus ricamando con le sei corde un tema portante degno delle migliori intuizioni di Rune Stiassny in Saturn in Ascension, si intuisce come ormai la band abbia preso coscienza delle proprie potenzialità e riesca a modulare alla perfezione i dosaggi tra potenza e melodia. Non è un caso, allora, che nella successiva “Ouranio Deos”, a fronte di un’andatura nel complesso più pesantemente compassata, tocchi al violino aprire squarci lirici ai confini della voluttuosità, così come a una prima metà di “Cosmic Silence” spesa prevalentemente sul versante dell’energia e culminante in una breve escursione delle pelli di Stelios Darakis in territorio black (espediente peraltro ripetuto con pari successo in altre tracce), corrisponda un finale reso struggente da un tripudio di archi. Detto dell’ottima “Erynies”, impreziosita da un inatteso quanto riuscito inserto di tastiere settantiane dallo spiccato retrogusto Deep Purple, si prosegue su livelli di assoluto rilievo con le ascendenze Swallow the Sun degli esordi richiamate dalla coppia Misos/Threnos, con un focus puntato prevalentemente su un melodic death che, soprattutto nella titletrack, diventa anthem trascinante pronto per un’impeccabile resa live. Il gran finale è affidato al brano col minutaggio più sostenuto del lotto, “Odysseia”, e anche in questo gli ateniesi dimostrano di non temere la sfida: un lungo avvio circolarmente doom a caricare la tensione, un improvviso stop acustico con un delizioso giro di chitarre opethiane, un’esplosione melodica sottolineata da rintocchi di pianoforte e da un recitato al femminile (in lingua madre) in cui rivive più di qualcosa dell’ultimo spettacolo di casa Helevorn, Aamamata… ed ecco che prende definitivamente forma, l’evocativa drammaticità preannunciata dallo splendido artwork della cover.
Per tutti quelli che li avevano dati per irrimediabilmente persi alla causa del doom/death d’autore, per i molti che li immaginavano già relegati a una dimensione d’archivio, per chi semplicemente dubitava che nei loro serbatoi fosse rimasto abbastanza carburante per spiccare quel volo appena accennato a inizio carriera, Threnos è la risposta clamorosamente migliore: il secondo quarto di secolo di carriera degli On Thorns I Lay inizia con un grande spettacolo, a non troppi passi di distanza dalla perfezione.
(2020, Lifeforce Records)
1. The Song of Sirens
2. Ouranio Deos
3. Cosmic Silence
4. Erynies
5. Misos
6. Threnos
7. Odysseia