Rotting Christ e Septicflesh, eventualmente i Nightfall… a giudicare da nomi ed età anagrafica dei protagonisti che vengono citati dal rock/metal kid medio alle prese con una domanda su cosa conosca della scena greca, verrebbe quasi da pensare che, esauritasi la straordinaria congiunzione astrale ottanta/novantiana sotto i cui cieli si sono materializzate le tre storiche ammiraglie elleniche, il paesaggio sia, se non brullo, quantomeno poco significativo, quasi che il mondo si fosse irrimediabilmente fermato ai fasti di epoche che furono. La realtà, ovviamente, racconta tutta un’altra storia e, limitandoci a confutare la tesi analizzando il solo panorama post, troveremo monicker che meriterebbero posti tutt’altro che di seconda fila, in una galleria di eccellenze colpevolmente poco note fuori dai confini nazionali. Che si tratti del post metal di diretta filiazione sludge-core (Mass Culture) o di uno dei pochissimi tentativi planetariamente riusciti di ripercorrere le orme Isis (il meraviglioso Subtopia dei Fields of Locust, ormai avviato alle celebrazioni del decennale dall’uscita), diverse band greche sono state in grado di offrire lavori qualitativamente impeccabili e di statura internazionale e il discorso non cambia anche all’altro lato dello spettro post, dove le atmosfere diventano eteree e i colori sfumano. Ed è in queste lande intrise di delicati afflati poetici che, negli ultimi due anni, è emerso clamorosamente il nome degli Once Upon a Winter, dietro cui peraltro si cela l’unico deus ex machina della creatura, Ilias Kakanis.
Protagonisti di una doppia prova sulle lunghe distanze di un full length clamorosamente matura fin dal debut Selective Depression in Chase of the Big Bang e ancora più convincenti nel successivo .existence (qui la titletrack da sola vale ampiamente il prezzo del biglietto), gli Once Upon a Winter hanno scelto di nuotare in quel brodo primordiale di chiara ascendenza Mogwai da cui generalmente si esce o con le ossa rotte per eccesso di freddezza e autocompiacimento o pronti a spiccare il volo, se si è dotati di ispirazione e capacità di scrittura fuori dal comune. E che i Nostri appartengano senza ombra di dubbio a questa seconda, ristretta cerchia è chiarito definitivamente da questo Pain and Other Pleasures, che completa un trittico in grado di spiegare abbondantemente le ragioni per cui i God Is an Astronaut (ecco qualcun altro che proprio non riesce, a chiudere le ali della qualità…) li abbiano scelti per condividere i palchi nella tournee in terra ellenica, in questo caso in modalità band collettivamente strutturata. Ed è indubbiamente alla pozione sonora distillata nell’isola Smeraldo dai gemelli Kinsella (pensiamo però a un Helios / Erebus, piuttosto che al più recente Epitaph) che Kakanis volge anche stavolta lo sguardo, ma nessun passaggio del platter è anche solo minimamente attraversato dal brivido freddo della derivatività, rivelando oltretutto un approccio multidirezionale al genere che è merce decisamente poco comune, su queste frequenze. Ecco allora, accanto alle relativamente prevedibili rarefazioni ambient e, in misura minore, space, una batteria tutt’altro che ornamentale di incursioni in territori blackgaze e prog, senza dimenticare la conferma dell’attitudine vagamente gothic maturata già nel predecessore e che il video di accompagnamento a una titletrack dall’ossatura squisitamente katatoniana (“Departer”?) aveva reso plasticamente palpabile a cominciare dalla scelta dei paesaggi finlandesi (e non sarà forse un caso che la band sia approdata sotto le insegne della giovane Snow Wave Records, che ha a Tampere il suo quartier generale). Ma, come del resto nelle precedenti release, il punto di forza di Pain and Other Pleasures è ancora una volta la straordinaria capacità del mastermind di Salonicco di lavorare in punta di cesello una materia ad altissima resa melodica senza il minimo cedimento alla tentazione di rifugiarsi in un comodo easy listening da cassetta, mantenendo sempre vivo il filo della tensione emotiva tra struggenti abbandoni e malinconici chiaroscuri in cui si insinuano brevi ma fondamentali increspature segnate dalla spigolosità black, a cominciare dalle sia pur rare incursioni di un cantato abrasivamente declinato in scream. Non resta dunque che affidarsi a occhi chiusi a una tracklist dalle mille sfaccettature, che sfodera subito la coppia d’assi dell’intero lotto grazie all’accoppiata “A Loose End in Time/Partial Fraction Decomposition” (atmospheric rock, prog, gothic, black… raramente capita di imbattersi in un arcobaleno di generi così armonicamente amalgamati) e si chiude con l’incrocio magico e toccante tra pianoforte e violino di “Forgotten”. Nel mezzo, forse con la sola, parziale eccezione di una titletrack un po’ troppo insistentemente sbilanciata su un minimalismo ambient che regge a fatica la prova dei sette minuti, funziona praticamente tutto, dal gioco di onde in sciabordio cosmico/marino di “V Waves” al tripudio blackgaze di “Reynisfjara”, passando per quella “Nepenthe” che, anche grazie all’eccellente contributo al microfono dell’ospite Emi Path, certifica le straordinarie potenzialità dell’incontro tra suggestioni classiche e approdi gothic.
Un mondo di eteree dissolvenze che proiettano ombre fugaci su una tela raffinata ed elegante, panorami in cui l’incanto della visione è appena incrinato da un vago senso di inquietudine che diventa poesia, Pain and Other Pleasures è un album che si iscrive di slancio nel ristretto novero delle grandi uscite di questo 2019 e non solo all’interno dei confini del genere. Tre uscite, tre lavori in cui all’impeccabilità delle forme si accompagna sempre un contenuto vivo e coinvolgente… serve altro, per assegnare agli Once Upon a Winter la patente della post rock imperdibilità?
(2019, Snow Wave Records)
1. A Loose End in Time
2. Partial Fraction Decomposition
3. Pain and Other Pleasures
4. V Waves
5. Nepenthe
6. Reynisfjara
7. Forgotten