PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. Tutte le recensioni sono a cura di Antonio Sechi.
DISTURBED > DIVISIVE
Tolti i luoghi comuni che fanno dei Disturbed i Disturbed, tolti i tormentoni di David Draiman, tolta una batteria dal suono finto come le banconote da quattro euro e un riffing inconsistente ed inefficace, non resta assolutamente nulla, se non un ennesimo disco uguale a tutti quelli usciti da una decade a questa parte da parte di una delle tante band che dovrebbero rivalutare seriamente la propria resistenza in un ambiente che necessita davvero di novità e proprio per nulla di riciclaggi e idee pateticamente banali.
DROWNING POOL > STRIKE A NERVE
Lasciando perdere il classico discorso “cosa ne è stato della band che rilasciò un disco come Sinner?” e lasciando perdere perfino quella critica incompetente che ha definito questo disco come “non male”, Strike A Nerve è il risultato di una scrittura povera, una parodia. La band sembra aver voluto cercare di mantenere i connotati natali fallendo miseramente e cercando di mescolarli a uno stile che ricorda in maniera parodistica quello di Stabbing The Drama dei ben più capaci Soilwork. Quello che ne risulta è un rock liceale ribellino e rabbiosetto con le magliette nere e un teschio bianco, i braccialetti con le borchie smussate, i capelli ingellati finto spettinati, l’eyeliner, lo smalto e le rughe a rendere il tutto imbarazzante, considerato quanto proposto in questo disco, se così possiamo chiamarlo.
HIGH VIS > BLENDING
Chi scrive è già da un po’ che tiene d’occhio gli High Vis, questa band londinese ha dato con Blending una seconda prova delle proprie capacità. Ancora una volta il goth rock à-la The Cult è accompagnato a un forte spirito punk degno dei tempi primigeni in cui i The Jam erano la novità. Certo va detto che in confronto a questo, il precedente No Sense No Feeling aveva una spontaneità nettamente più marcata, ma non per questo Blending va considerato un lavoro impostato o forzato, al contrario, gli High Vis stanno dimostrando di saper aggiustare di molto la loro proposta. Questo nuovo disco presenta una minore rigidezza perché sì, No Sense No Feeling era molto più spontaneo, ma anche rigido e in qualche modo sempre attento a non tradire quella direzione, un disco cauto si potrebbe dire. Blending invece si prende molte libertà, è più sciolto e non importa più alla band di cadere di quando in quando in una sorta di brit rock, ma sempre sporco sia chiaro. In ogni caso, il carattere della band è sempre chiaro e questo disco è davvero ottimo.
BRUTUS > UNISON LIFE
I Brutus erano una realtà fra le più interessanti già prima di Unison Life, ma aggiungendo questo nuovo capitolo alla loro storia penso sia chiaro a tutti che con loro non ci sono storie. Unison Life è forse il culmine di emotività che la band ha raggiunto finora. Pezzi come “Victoria” e “What Have We Done” sono scariche devastanti che costringono l’ascoltatore a scoppiare in lacrime, ma ovviamente non mancano quelle rovinose cascate di roccia come “Dust” e “Chainlife”, quest’ultima per altro potrebbe benissimo essere la perla più preziosa di un disco che è già un piccolo capolavoro. Ovviamente si tratta di un team praticamente perfetto in cui ogni cosa e ognuno è fondamentale al compimento di una musica praticamente perfetta, ma Stefanie rende il tutto così tristemente reale e meravigliosamente onirico. Unison Life è uno di quei dischi come ne escono di rado.
BEBAWINIGI > STUPOR
Al secolo Virginia Quaranta, un’artista dallo spiccato completismo. Si tratta infatti (per chi non familiarizzare con questo nome) dell’autrice delle musiche contenute nel film Lumina, un opera di fantascienza non proprio immediata, del 2021. Stupor è il terzo lavoro con il progetto Bebawinigi ed esattamente come il film citato sopra, non si tratta di roba immediata. L’artista mette in musica tutto quello che ha in mente e non importa se si tratta di vicine alterate o pernacchie, chitarre distorte o percussioni insolite, va tutto bene per creare qualcosa che a un primo ascolto può sembrare una curiosa chimera tra P.J. Harvey, Eric Serra e Björk del periodo Debut. Richiede sicuramente molti ascolti per poter essere prima capito e poi apprezzato, ma ne vale assolutamente la pena dedicarci del tempo, soprattutto per l’atmosfera eterea in cui immerge chi ascolta.
SOULFLY > TOTEM
Siamo giunti a un quantitativo impressionante di dischi per quanto riguarda i Soulfly, creatura dell’instancabile Max Cavalera e va detto perché bisogna riconoscerglielo: i Soulfly con il tempo hanno avuto una impennata qualitativa significativa, sempre caratterizzata da lunghi passi in avanti ma da almeno un paio indietro. Dei primi dischi dimentichiamocene per carità cristiana, quelli non sono nemmeno da considerare, però quel The Dark Age a cui molti diedero fiducia in quanto sembrava dare l’idea di un Max in ballo per cercare di scrollarsi via i postumi di Roots, oggi fa sorridere perché era davvero la fine e l’inizio di una nuova era. Totem arriva da una serie di dischi veramente buoni (Archangel, Conquer) e da altri meno buoni (Omen, Savages) con una carica abbastanza fresca e rinnovata di un riffing decisamente più vivo e di un lirismo un po’ ampio (perché sappiamo che fino a poco tempo fa il vocabolario di Max Cavalera era davvero ristretto). Ci sono qui bellissimi passaggi che fanno riferimento a un mondo più vasto per quanto riguarda il metal. Certo i refusi tribal non siamo riusciti a levarceli di torno del tutto, ma almeno sono stati ridotti all’osso. In sostanza è un buon disco davvero, di un thrash death fatto bene e bello dinamico, forse l’unica pecca è l’imbarazzante somiglianza con le ultime cose degli Slayer, ma ce ne faremo una ragione, solo per fiducia, sia chiaro. Si parla comunque di gente che non ha più nulla da dimostrare e probabilmente con il tempo realtà come i Soulfly diventeranno solo una ditta che produce buone cose solo perché chi le dirige ha buon occhio per l’assunzione degli operai. Non so se ho reso l’idea…
THE CULT > UNDER THE MIDNIGHT SUN
Prima di venir frainteso: i The Cult non sono e non saranno mai più la straordinaria band che spaccò la scena goth rock con il capolavoro Love. Detto questo, Under The Midnight Sun si pone come una sorta di rivalsa su una carriera all’insegna di pochi dischi e spesso un po’ approssimativi, mentre questo nuovo mette in luce una band che ha meditato per diverso tempo della nuova musica che mantenesse la natura e la personalità della band, ma anche qualcosa che non faccia pensare al passato. Dei The Cult completamente nuovi in pratica. Credo di poter dire che questa nuova cosa funzioni. Le chitarre che sanno di 80s ci sono, ma c’è anche una ritmica che fa pensare al rock moderno, quello che passa anche per radio, ma al tutto va ad aggiungersi quella che sembra una voglia di non voler per forza farsi piacere, i The Cult sanno benissimo chi sono e sono perfettamente consci di avere un pubblico attempato e nessuno delle nuove generazioni (tendenzialmente parlando s’intende); e forse proprio per questo insieme di fattori che credo si tratti di un buon disco, è un lavoro che riunisce, che riconcilia. Questo è uno di quei rari casi in cui dei musicisti praticamente veterani di una scena morta da decenni non si rendono ridicoli facendo qualcosa a cui non appartengono e che non li compete. Under The Midnight Sun è un disco profondo e familiare, intimo quasi, per soli amanti forse, ma funziona bene.
ADRIAN VON ZIEGLER > ODYSSEY
Chiudiamo questa edizione con un disco molto interessante, forse il più interessante considerato cosa e chi c’è dietro. Partiamo da un presupposto: Adrian Von Ziegler è uno dei migliori compositori attualmente esistenti e assieme ad altri assoluti maestri quali Les Chants Du Hasard e Graham Plowman. Von Ziegler con Odyssey II porta avanti la sua crescita musicale e anziché rilasciare un altro disco di musica celtica (che sarebbe stata senza alcun dubbio meravigliosa) ha deciso di cimentarsi con la musica tradizionale cinese e giapponese, questa volta per intero. Il primo Odyssey già conteneva queste sonorità ma molto sporadiche e recintate a pochi brani. Ora ci siamo in pieno, questo ragazzo elvetico ha decisamente sviscerato queste scale così lontane dalle nostre e le ha fatte sue. È vero che all’interno del disco troviamo anche altri tipi di sonorità, cose di riferimento mediorientale e persino musica facente parte del periodo antico, ma si sa che questo genere di cose le possiamo solo immaginare tramite influenze e suggestioni, perché come scrive Claudio Casini: la musica ellenica od imperiale romana non sono giunte fino a noi, ma solo vaghe descrizioni. Il ragazzo qui però ha avuto buon occhio e certe cose le ha azzeccate bene perché ascoltando lasciando aperta la porta dell’immaginazione è facile fantasticare su una Grecia precristiana e una Roma del Sacro Impero. La pazienza è parte integrante dell’ascolto di questo disco, ci vuole del tempo, si tratta pur sempre di un’odissea e come tale la si deve percorrere tutta senza saltare nessun dettaglio. I Dettagli, sono molti e vanno scoperti. Senza dubbio questo è uno di quei dischi che fanno dell’artista che l’ha composto un compositore migliore, più completo e credo valga la pena ascoltarlo più volte possibile per apprezzarlo al meglio. Non è solo per appassionati comunque, è qualcosa che chiunque può imparare ad amare, anche perché la musica qui dentro è in grado di rimettere insieme i pezzi dei nostri pensieri. Una perfetta colonna sonora per la propria meditazione e riflessione.