
Il ruolo rivestito in ambito metal statunitense da Austin Lunn è indubbio. Possiamo discutere se ci piaccia o meno quello che ha realizzato finora, ma di certo non possiamo negare il suo ruolo di apripista per un certo tipo di sonorità prettamente nordeuropee, nel nord del continente americano. Può suonare strano associare questo tipo di approccio per uno statunitense nato a Memphis nel Tennessee, nel sud est degli States, ma è tutto vero, per quanto possa suonare grottesco. Songs of Hiraeth è una raccolta che comprende materiale composto nel biennio 2009-2011 e ad oggi mai apparso su disco. Sette brani lunghi e articolati, come da tradizione Panopticon, in cui Lunn è riuscito a condensare tutte le sue idee in ambito metal estremo. Una scelta sonora grezza, violenta e diretta che ha, negli anni, fatto accrescere il numero degli estimatori del suo progetto, e che Lunn ha solo recentemente (quantomeno parzialmente) abbandonato per dedicarsi al southern folk, peraltro con risultati decisamente buoni.
Al netto di una registrazione non sempre impeccabile, in alcuni frangenti quasi fastidiosa, che si evidenzia soprattutto nelle parti più dinamiche e intense, l’album mostra uno spaccato di storia di una realtà sonora che ha, negli anni, saputo rinnovarsi, reinventarsi e farsi sempre trovare pronta. Sono passati quasi vent’anni dal debutto a cavallo dei primi dieci anni del nuovo millennio, ma non è cambiata l’attitudine nichilisticamente orientata verso la ricerca della libertà (individuale e collettiva) che si scontra con l’autoritarismo contemporaneo degli Stati Uniti d’America. I brani sono stati (per forza di cose) remixati prima di essere stampati, e pur se provenienti da diversi momenti temporali, e da diversi momenti concettuali, alla fine suonano piuttosto bene come risultato di insieme, pur se ovviamente slegati a livello strettamente stilistico. In merito Lunn identifica questa raccolta come un qualcosa da guardare come un ipotetico sequel mai realizzato di On the subject of mortality, album del 2010 che lo stesso Lunn non nasconde essere il suo preferito tra quelli realizzati finora con i Panopticon.
È sicuramente impresa tutt’altro che facile quella di riuscire a classificare la band di Lunn senza scontentare qualcuno. La sua carriera è infatti costellata di tutta una serie di sfumature che rendono la cosa impraticabile e improponibile. Soprattutto nel momento in cui ci si confronta con tutti coloro (tutt’altro che pochi) che hanno per i Panopticon una vera e propria venerazione. Alla fine, come fai, sbagli, sempre e comunque. Al netto di tutto questo c’è però la sostanza dei fatti, che si concretizza nell’evidenza che ci porta ad affermare che, qualitativamente parlando, quello di Lunn è un progetto che risulta immediatamente riconoscibile, al di là delle strade più o meno diverse e dissonanti che ha preso nel corso degli anni. Un progetto che merita tutta la nostra attenzione e tutto il nostro rispetto, non fosse altro che per l’alto spessore morale di un autore che non ha mai nascosto le sue idee, sin dai tempi di quel lontanissimo tributo a Sacco & Vanzetti, proseguito poi, negli anni a seguire con le sue prese di posizione su argomenti “scomodi” che vanno dall’ambientalismo, all’industria mineraria degli Appalachi, all’oppressione dei nativi americani.
(Bindrune Recordings, 2025)
1. The Road to Bergen
2. From Bergen to Jotunheim Forest
3. White Mountain
4. Haunted America
5. The End is Growing Near
6. A Letter
7. Eulogy


